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Civiltà Appennino

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Lo stato delle politiche per le aree interne. Riequilibrare le strategie di rilancio

Un aggiornamento sulle “aree interne” e sulla strategia nazionale

di Francesco Monaco

 

Per non dimenticare. Mentre infuria il dibattito sul PNRR. Le “aree interne” rappresentano più della metà del territorio italiano, sono abitate da circa 13 milioni di persone, il 22% della popolazione. Si caratterizzano per la loro lontananza dai poli di erogazione dei servizi fondamentali: l’istruzione, la sanità, la mobilità. I poli sono le città dove sono ubicate le scuole superiori e le università, i presidi medici e gli ospedali, le stazioni e gli snodi ferroviari. Secondo l’aggiornamento della mappa realizzata dal Dipartimento per le politiche di coesione i Comuni più estremi, quelli classificati come periferici ed ultra-periferici (cioè distanti più di 40 minuti dalle città) nel periodo 2014-2020 sono passati da 1.767 a 1.906 mentre la popolazione che vi abita è passata da 4.227.676 a 5.373.407. Segno che aumentano le persone che si “allontanano” dai luoghi dove potere soddisfare adeguatamente i propri bisogni primari. Altre caratteristiche delle “aree interne” sono la carenza di lavoro e lo spopolamento. I tassi di spopolamento aumentano in progressione e hanno fatto parlare di “inverno demografico”, anche se il fenomeno interessa purtroppo tutto il Paese. Le occasioni di lavoro diminuiscono con l’aumento della rarefazione. Ma le “aree interne” per fortuna non sono solo questo. Sono anche una riserva fondamentale di fonti energetiche primarie, di acqua, di vento, di biodiversità, forniscono servizi ecosistemici essenziali. Sono i luoghi di una varietà produttiva e di un’agricoltura che grazie alla morfologia dell’Italia non ha eguali in Europa. Rappresentano, infine, un accumulo di beni archeologici e paesaggistici, di culture, di saperi sedimentati, di senso di comunità essenziale per affrontare il cambio di paradigma che ci impone la doppia transizione ecologica e digitale in atto.

Insomma, le “aree interne” sono una parte dei nostri problemi ma anche una parte, e molto importante, delle soluzioni che dobbiamo approntare per superali.

 

La Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI): una questione di metodo

La SNAI nasce nel 2012 dall’intuizione del Ministro per la coesione territoriale del tempo, Fabrizio Barca. Ricordo un seminario di studio a dicembre 2022 con molti Ministri che intervennero per ribadire l’importanza di “curvare” alle esigenze di questi territori le principali politiche pubbliche del Paese: la scuola, i trasporti, la sanità. Abbandonando il paradigma dell’ultimo quarantennio fondato sul concetto “le città motore dello sviluppo”, locomotive della crescita. Questo è stato uno dei tratti originali della Strategia: serve a poco investire in queste aree, magari sul lavoro o sulle imprese, sull’agricoltura o sull’artigianato, sul turismo se non si ristabilisce con politiche adeguate il godimento pieno dei diritti di cittadinanza delle persone che ci abitano.

Questo il cuore dell’intuizione. Un richiamo forte ad applicare l’art. 3 comma secondo della Costituzione che dice che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Un impegno gravoso, peraltro, perché -come accennavo- significava rompere con il vecchio modello che riversa le risorse pubbliche essenzialmente nelle città, tarando a loro misura gli interventi e lasciando alle aree marginali, interne, residuali qualche investimento utile solo a compensare i disagi che vi si concentrano. La SNAI nasce con questa forte ambizione.

Aveva bisogno di conoscenza per svilupparsi. Prima della sua effettiva messa in opera nel 2014 (Accordo di partenariato 2014-2020), seguono infatti due anni di analisi e studi da parte di un gruppo di amministrazioni e centri di ricerca, da cui poi nacque successivamente il Comitato tecnico nazionale, che guiderà la Strategia. Da quello sforzo di studio furono estratti più di 100 indicatori statistici che ci raccontarono come stavano messe veramente le aree interne del Paese: di quanta superfice agricola utile erano dotate, quante imprese vi operavano, quale tasso di invecchiamento registravano, quanti emigrati ospitavano, quante scuole elementari e medie  vi erano localizzate, quale livello di merito scolastico  (INVALSI) vi raggiugevano gli alunni, quali erano i tempi di intervento in urgenza di un ambulanza, quanti mesi passavano per una prima visita ginecologica… questi sono solo alcuni degli indicatori emersi, applicabili territorio comune per comune, luogo per luogo. Conoscere per decidere.

Contemporaneamente fu dato avvio all’istruttoria pubblica per scegliere le aree su cui intervenire. Lo facemmo nel primo “Forum delle aree interne” organizzato a Rieti dell’11 e 12 marzo del 2013. Ai Comuni si disse di esprimere le loro candidature ma di farlo lavorando insieme, nella prospettiva dell’associazione, per aree omogenee. Nei fatti, l’associazionismo di funzioni e servizi fu assunto come pre-requisito per l’accesso alla Strategia. La scelta fu ispirata dalla partecipazione e dal confronto fra Stato, Regioni, Comuni e società. Un’altra innovazione che portò la SNAI riguardò l’applicazione della co-progettazione nella definizione degli investimenti territoriali: l’obiettivo era mettersi con l’orecchio a terra per raccogliere i bisogni del territorio ma poi subito dopo individuare i soggetti locali più adatti a dare gambe alle azioni di miglioramento dei servizi pubblici e di stimolo allo sviluppo locale.

 

A che punto siamo

LA SNAI è stata confermata come una delle strategie integrate territoriali nel nuovo Accordo di Partenariato siglato con l’UE nel luglio scorso, insieme agli interventi di sviluppo sostenibile sulle aree urbane. Con la nuova mappa sono state selezionate altre aree di intervento. Oggi siamo a 114 aree, dalle 72 della precedente programmazione.

Nessuno sa con certezza cosa sia successo nelle aree in cui si è intervenuti con le “sperimentazione”. L’ultima relazione al Parlamento risale al 2020. In mezzo la pandemia. Al tempo, i tassi di spesa erano allineati alla media dei programmi operativi delle Regioni. Male, perché i PO assorbono ancora poco. Ma il sospetto è che su quei territori siano successe molte più cose di quante ne raccontino l’avanzamento finanziario dei progetti attivati. Occorrerebbe impegnarsi in un monitoraggio “a terra” e di esercitare una valutazione della policy. Non mi risulta che alcuno lo faccia.

Per parlare del futuro, contrariamente alla prima fase, la selezione delle nuove aree è stata fatta dall’alto, con una istruttoria meramente tecnica realizzata da Stato e Regioni. Nessuno ha coinvolto Sindaci e comunità. Il metodo sperimentato nel passato ciclo di programmazione appare sostanzialmente smantellato. Siamo di fronte ad un passaggio di fase che sembra più un arretramento. Lo abbiamo spiegato nell’ultimo rapporto sui Comuni che IFEL redige insieme all’Università Ca’ Foscari.

Di fatto, la strategia è stata regionalizzata e starà alle regioni portarla avanti. Si è perso sicuramente il riferimento al tema della curvatura delle politiche ordinarie, di cui parlavo prima. Il centro ha perso il suo ruolo, perché il Comitato tecnico nazionale pare svolgerà solo una funzione di ratifica delle decisioni prese. Non avrà strumenti per guidare il processo, traguardando obiettivi Paese. La sorte della co-progettazione resta affidata al buon cuore delle regioni. Così come il supporto tecnico al territorio. Le risorse non dovrebbero mancare, in un tempo di “vacche grasse degli investimenti”. Ma il tempo è tiranno e la fretta di spendere non è una buona consigliera. Speriamo che le comunità prescelte con i rispettivi Sindaci possano avere spazio e ruolo per proporre le loro istanze e mettere in campo efficacemente le loro visioni e i loro progetti.

 

Come si concilia una strategia nazionale con le rispettive specificità dei singoli paesi?

La strategia è nata proprio per dare una risposta articolata alle problematiche indotte dalla estrema frammentazione istituzionale, socio-economica e persino orografica che caratterizza il territorio italiano. Con l’obiettivo di esaltarne le specificità, che sono una fonte ricchezza e di biodiversità. In un quadro di sistema. Si è già detto del requisito associativo. Lo slogan che usavamo durante l’istruttoria pubblica per la selezione delle prime aree e poi per il lavoro successivo di costruzione delle strategie d’area era il seguente: ogni territorio, ogni comunità rappresentata dal proprio Sindaco deve essere valorizzata nelle sue specificità, ma ciascuna deve essere capace di salire sul campanile del proprio paese per uno sguardo di insieme e un agire comune. Piccolo e frammentato non fa “più bellezza” ma solo “più debolezza”.

 

Che fase stanno vivendo oggi i piccoli paesi italiani?

Sono in difficoltà. La torsione nelle politiche pubbliche tentata con la SNAI non ha prodotto i suoi effetti. Come già detto, servirebbe una seria valutazione di quello che si è fatto, prima di smontare e ripartire da capo. I dati che ci offre ISTAT sullo spopolamento restano gravi. Il timore è che la pandemia, oltre l’entusiasmo della prima ora con lo smart working delocalizzato in aree interne, pare aver peggiorato la situazione. Certo registriamo una certa vitalità in molte aree dell’appennino e delle Alpi. Giovani che ritornano dopo un periodo di studio e di lavoro e vogliono rimanere, forse espulsi dal peggioramento delle condizioni di vita e dalla congestione delle città. Si impegnano in nuove forme di agricoltura multifunzionale e intendono giocare un ruolo nelle transizioni digitale e, soprattutto, ambientale. Le risorse per sostenerli non mancherebbero, l’abbiamo detto. Il PNRR è un’occasione che non possiamo perdere, anche se non vedo un disegno ben focalizzato sui problemi delle aree interne. Anzi emerge una sfocatura preoccupante sul tema. E poi la tecnica del bando competitivo per ripartire risorse pubbliche non sembra la migliore, anzi al contrario sarebbe fra le più contro-indicate. Non si mettono in competizione le fragilità. Ad ogni modo, le tante buone cose che si vedono in giro, così come i tanti progetti finanziati dal PNRR, se non diventano sistema faranno comunque fatica a determinare la svolta attesa (e necessaria).

 

Quali sono le difficoltà principali che hanno affrontato negli ultimi 20-30 anni?

La politica ha guardato altrove. Al centro, al modello urbano, trainante, l’intendenza avrebbe seguito ma con il grave portato del peggioramento di tutti gli indicatori di benessere e di sostenibilità. Si è continuato a guardare ai ceti urbani, ricchi, cosmopoliti, ingolfati nelle isole di calore e nel turistificio delle ZTF. Mentre quello che c’è fuori è stato guardato solo con lo sguardo di chi deve passare un week end di riposo dagli sforzi della produzione. E’ la retorica dei borghi, le eccellenze, tutto rose e fiori. Creando rabbia, scontento e voto di protesta perché le persone vere che ci vivono nei “borghi” fanno fatica ad andare avanti.

Non può essere così. L’abbiamo detto. La barca su cui navighiamo è una, ci siamo tutti a bordo. Se non riusciamo a costruire un rapporto equilibrato e giusto fra le diverse parti dell’organismo rischiamo di andare tutti a fondo.

La prospettiva è la costruzione una nuova relazione città-aree interne, improntata al rispetto delle funzioni di ciascuna parte. Ad uno scambio equo. Non ci sarà un principe illuminato che concederà questa nuova costituzione materiale. Occorrerà svilupparla nel confronto, starei per dire nel conflitto, anche aspro se serve ma consapevole e rispettoso delle regole della democrazia. Le scorciatoie populiste o ribelliste non serviranno, come non saranno utili voto di protesta o astensione arrabbiata.

 

Quali sono, invece, gli aspetti positivi del fermento che sta coinvolgendo molti paesi italiani?

Sono documentati in tante ricerche che fanno associazioni come Riabitare l’Italia o il Forum disuguaglianze e diversità, o centri di ricerca e università, come il GSSI di L’Aquila. Basta guardare alle tante Fondazioni, come la Fondazione Appennino che ospita questo scritto, e strutture di terzo settore attive nelle aree interne. O al contributo di singoli studiosi o osservatori che hanno costruito una bibliografia ormai importante di racconti e analisi sulle tante cose belle e utili che succedono nelle aree interne. Con IFEL l’anno scorso abbiamo dedicato un libro al tema: L’altra faccia della luna. Che c’è, esiste, magari ha problemi di rappresentanza, ma vive e combatte con noi. Ed offre un contributo essenziali alle sfide del presente

 

Le diverse strategie di rilancio, sia nazionali sia locali, dei piccoli territori vanno spesso a scontrarsi con criticità reali, tipo comunità sfibrate, campanilismo, invidie politiche e asti familiari. Come è possibile intervenire sulle politiche locali e sulle esigenze sociali così spesso in contrapposizione?

I limiti del campanilismo ce li ha raccontati benissimo Franco Arminio, cantore dei paesi. Se si chiudono in se stessi i paesi diventano un stagno, in cui si auto-alimentano sentimenti negativi come l’invidia, lo scetticismo, il disfattismo, la rassegnazione. Ormai è mitica la figura evocata dal poeta dello “scoraggiatore militante”, appostato all’angolo della piazza o appoggiato al bancone dell’unico bar di paese, solerte solo a stroncare nella culla ogni nuova iniziativa con una semplice alzata di sopracciglia. Un Cassazione inappellabile. I paesi, invece, devono farsi “ruscelli”, aprirsi all’esterno, far scorre e ricambiare l’acqua. Proporsi come luoghi di incontro, dove miscelare saper fare locali e correnti di pensiero esterni. In un circolo dinamico di scambio.  Non è semplice. Servono tante cose, lo sappiamo. Da classi dirigenti locali inclusive e aperte ai cambiamenti a politiche nazionali coerenti e durature. Ma intanto avere consapevolezza che questo è quello che più di tutto serve non è poco!

 

Francesco Monaco
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