Top
Image Alt

Civiltà Appennino

  /  Aree interne   /  FLAI24   /  In paese o in città è comunque precarietà

In paese o in città è comunque precarietà

Note sul pre-Festival del Lavoro nelle Aree Interne di Colli a Volturno

di Mirco Di Sandro

 

Due giornate di incontri, dibattiti, passeggiate e visite guidate, quelle del 17 e 18 maggio a Colli a Volturno, in Molise. Per il prefestival del lavoro nelle aree interne non poteva esserci inizio più intenso. Tanti i temi affrontati, tra poche gratificazioni e molte contraddizioni. Discutere di lavoro, di lavoratori/trici e delle pratiche del lavorare, schivando retoriche e pregiudizi, significa imbattersi in quel tortuoso scenario generalizzato che la globalizzazione neoliberista ha dispiegato sul suo vasto campo d’azione. Non più urbanizzato o ruralizzato, né più città e campagna o paesi e metropoli. Si è sempre più operatori dei servizi, titolati e malpagati, in ogni geografia della contemporaneità.

Eppure le disparità persistono tra paese e città: si è precari in varie forme, sebbene il contenuto sia il medesimo. Si è, a varie intensità, ricattabili, incerti, instabili, mal pagati, poco apprezzati, affaticati, esausti. Forse – ma forse è un’illusione – lavorare in paese impone più fatica e meno ricompense del lavorare in città, specie se il campo di azione e realizzazione è quello del margine, del “posto lasciato indietro”, delle aree più o meno interne del Mezzogiorno, dell’Appennino, dell’isolamento, della scarsa accessibilità… Si è concluso con un messaggio importante il prefestival molisano: l’internità territoriale non è un dato assolutizzabile e generalizzabile, ma si determina localmente nell’intersezionalità dei piani di svantaggio, di disagio e di fragilità. Essere lavoratrice precaria e donna, madre o aspirante tale, sola, giovane e senza esperienza, giovane e senza titolo, senza specializzazione e capitale di autoctonia (immigrata, straniera e non-cittadina) aumenta le fatiche.

Che il lavoro non nobiliti nessuno è chiaro da tempo. Non arricchisce e non aumenta il prestigio sociale. Oggi, paradossalmente, impoverisce. Tra woorking poor e in-work poor si sperimentano forme di deprivazione gravose, pur lavorando. Senza legami, familiari o clientelari (sic!), difficilmente si possono sostenere tempi, sforzi e mobilità del lavoro.

Le due giornate molisane sono terminate con un animato dibattito, perimetrato dal titolo “Cemento dolce e miele amaro”. Un esperimento di dialogo e di scambio veicolato da un’espediente metodologico inedito: una sorta di intervista in gruppo e di gruppo. Da una parte 5 testimoni di campo, dall’altra 5 osservatori critici. 5 intervistati di fronte a 5 intervistatori. L’interno gli uni, l’esterno gli altri. Tra i primi, Pietro, Cristina, Alessia, Gigi e Francesco. Tra i secondi, Francesca, Marco, Rossano, Augusto e Savino. Nomi senza cognomi: condizione paritetica anche a fronte di esperienze differenziali. Lo fa ben notare Savino che, dal lato dell’intervistatore, dopo aver ascoltato le presentazioni dei testimoni di campo, solidarizza con loro perché “appena laureato ho fatto l’operaio, poi ho lavorato come giornalista. Sono tornato e sono diventato guida ambientale. E oggi insegno a scuola”.

Pietro è giornalista (ha un patentino) e “deve ritenersi privilegiato” se, oggi, può esercitare la professione a pochi chilometri da casa, potendo continuare ad abitarvi. Cristina era operaia, prima che la fabbrica chiudesse; ha dovuto penare per poter “entrare a scuola” come insegnante di sostegno e realizzare “il suo sogno”, esercitando il lavoro per cui ha studiato. Alessia premette di “essere avvocato, senza esser figlia di avvocato” e dopo anni di lavoro non pagato, chiamato praticantato, è potuta diventare mamma, anche con una partita iva. Gigi invece ha scelto di trasferirsi da grande in Molise. Ha visitato i luoghi e si è detto “è qui che voglio stare”. Ha studiato da agronomo, anche se si definisce artigiano. Costruiva scarpe in cuoio, prima di iniziare a lavorare con le piante e con le api. Oggi produce miele e domani vorrebbe aprire un agricampeggio, ma è stato fermato da un progetto e una volontà eterodiretta: si chiama Pizzone II la formula estrattiva con la quale Stato e Mercato vogliono perforare il territorio e sacrificarlo, in nome della transizione, alla produzione ossessiva e speculativa di energia idroelettrica. Stessa sorte per Francesco, tornato a casa dopo un intenso vagare. Per apprezzare la bellezza e prendersi cura del paesaggio è diventato guida ambientale. Vorrebbe “farlo di lavoro”, ma è costretto a barcamenarsi tra i lavoretti e il “dare una mano” per campare.

Ci lasciano con un amaro sapore in gola, con la consapevolezza che si può scegliere un lavoro, ma poi si è costretti a lavorare in altro modo, senza rappresentarsi come lavoratori e lavoratrici. Concetto, azione e soggetto raramente coincidono. Volere non è potere. Si sceglie, solo se si hanno le possibilità, di formarsi per un lavoro. Ma poi si deve solamente accettare: un posto, un salario, delle condizioni. Mai soddisfacenti.

Tra chi può e chi aspetta – come citava l’antropologa Amalia Signorelli negli anni ’80 – ci sono quelli che accettano e quelli che sperano, ma anche quelli che pianificano e che costruiscono. Come Emanuel che abbiamo incontrato al mattino del 18 maggio, passeggiando dal centro di Colli a Volturno fino ai resti del mulino che ha ereditato dai suoi nonni. Ha grandi progetti ma non riesce a superare grandi ostacoli. Si prende cura di quel luogo, di quelle pietre che, anche se travolte dalla rabbia di un fiume in piena (nel lontano 1966), ancora conservano la forma e il significato di un mulino. Emanuel si batte affinché possa divenire patrimonio collettivo, prima che imploda su sé stesso. Ogni giorno pulisce e accudisce le condotte e le macine, maneggia i vecchi utensili dell’Ottocento, sfoglia gli scatti e i documenti. Mentre scrive e invia progetti di ristrutturazione, ha rimesso in funzione una piccola macina da cui ricava farina. Non la vende e non ha intenzione di diventare un nuovo mugnaio. Attiva le macchine per ri-attivare il ricordo; macina grani per raffinare il presente. Anche lui resiste e contrasta la marginalizzazione territoriale.

Il giorno prima, il 17 maggio, tutto ha avuto inizio. Il CISAV – Centro Indipendente Studi Alta Valle del Volturno ha accolto i partecipanti nella piazza centrale del paese. In un teatro comunale all’aperto di recente realizzazione, il professor Augusto Ciuffetti della Rete di Storici RESpro, Gianni Lacorazza e Annalisa Romeo di Fondazione Appennino, l’editore Florindo Rubbettino, Gianni Palumbo ed Esterina Incollingo del CISAV hanno dialogato sui temi del lavoro, dello sviluppo e dell’abitare attraverso gli spunti dei volumi “Comunità Appennino. Superare l’«internità»” (a cura di Piero Lacorazza e Gianni Lacorazza; Rubettino 2024) e “Il lavoro tra passato e presente. Fragilità e opportunità di un patrimonio nei territori interni dell’Italia Contemporanea” (a cura di Maddalena Chimisso e Augusto Ciuffetti; Rubbettino 2024). Alla discussione ha preso parte anche il sindaco di Colli a Volturno, Emilio Incollingo, che ha ribadito come il tema “lavoro” possa guidare non tanto la riflessione su quali modelli di sviluppo adottare per i paesi (un discorso perdente all’origine, se veicolato dalla competizione con il modello delle città), ma come creare connessioni tra territorialità e favorire altri e nuovi modi di abitare le aree interne.

Prima di sedersi a tavola – momento di sedimentazione e condivisione necessario nel dibattito sull’Appennino che cambia (Buon appennino: la cultura del cibo nell’Italia interna, Rubbettino 2022) – Anna Maria Milone ha ripercorso la vita e le opere di Giose Rimanelli, l’autore molisano che alla metà dello scorso secolo raccontò le storie di lavoratori ed emigrati. Attraverso le voci di scalpellini e artigiani dell’epoca, Rimanelli ha narrato la cosmopolitizzazione dei vissuti, il farsi territorio di un Molise ancora in costruzione. La voce narrante di Anna Maria Milone ha interpretato gli spunti di Rimanelli proiettandoli al presente, discutendo del senso del lavoro che cambia, di emigrazioni e immigrazioni, di legami sociali e territoriali che il lavoro, indelebilmente, scandisce e condiziona.

Parlare di lavoro nelle aree interne è risultato il modo più proficuo per discutere di esistenze e vissuti di “gente di paese”, di disparità, di risorse, di vincoli e opportunità.

Se questi sono i presupposti, l’appuntamento del 12-14 giugno a Soveria Mannelli non lascerà certamente delusi.

Mirco Di Sandro
Ricercatore in sociologia (Università Sapienza e Roma Tre) e presidente del Centro Indipendente Studi Alta Valle del Volturno (CISAV-APS). Si occupa di studi sulle disuguaglianze sociali e territoriali, i processi di precarizzazione e marginalizzazione, con particolare riferimento alle condizioni giovanili e delle aree interne italiane
it_ITItalian