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Superare l’internità, oltre i luoghi comuni per la “cura” del futuro dell’Appennino

“IL LAVORO TRA PASSATO E FUTURO” è il titolo del volume degli atti pubblicati dal primo FESTIVAL DEL LAVORO NELLE AREE INTERNE tenutosi a Soveria Mannelli (CZ) nel 2023, organizzato da ReSpro, Rubbettino Editore e Fondazione Appennino. Un volume a cura di Maddalena Chimisso e Augusto Ciuffetti che tratta di “fragilità e opportunità di un patrimonio nei territori interni dell’Italia contemporanea” e che ospita il saggio seguente. 

di Gianni Lacorazza e Piero Lacorazza


 

L’internità è il luogo a “fallimento di mercato”, dove non c’è interesse per il Capitale e il decisore pubblico programma per i giovani non restanti. Le politiche per i giovani nelle aree interne sono come il capitone, pensi di afferrarle ma ti sfuggono.

Non c’è dibattito che non metta al centro, anche con una certa retorica, le politiche per i giovani. Non che il problema non ci sia, anzi. Non che si debba rinunciare nelle aree interne e appenniniche a questo capitale umano e di conoscenza. In una ricerca promossa dall’associazione “Riabitare l’Italia” è emersa la disponibilità a restare o tornare nelle aree interne da parte dei giovani. Dunque non c’è da essere fraintesi.

E allora chiariamo: nel tempo intercorso tra la programmazione e la realizzazione della Strategia Nazionale per le Aree Interne (S.N.A.I.) quanti giovani non sono restati? Nel tempo che c’è dalla corsa a partecipare ad un bando (per chi ci riesce!!!) all’attuazione ed all’efficacia dell’idea prevista da un progetto, quanto e come è cambiata la piramide demografica di quel luogo? Si pensa di afferrarlo ma il capitone sfugge. Ci sarebbe da indagare in che vortice sono costretti a stare gli adolescenti in paese tra luoghi, tecnologie, distanze, web ed ormoni per capire il dopo; ricercare il “prima” e il “dopo” del giovane oggetto di attenzioni e statistiche.

E se fuggono i target e non restano gli obiettivi delle politiche pubbliche – per stare alla tecnicalità che non ha anima e scienza – come si può pensare che il Capitale si muova per ridurre divari e diseguaglianze in aree a fallimento di mercato? Se gli indici che muovono i flussi della finanza e l’assetto geopolitico del mondo sono esclusivamente pesati, nelle aree dove le quantità sono piume è evidente che l’internità assume le caratteristiche di uno zoo durante l’intero anno e di zumpa zumpa nelle ferie di Augusto. In realtà nel corso dell’ultimo decennio, in particolare, queste aree sono state indagate cosi come l’occhio distante osserva, con il tentativo di continua messa a fuoco, il vetrino attraverso il microscopio. E chissà ancora quanti vetrini serviranno per alimentare la letteratura sulle aree interne. Ovviamente, non che non ci voglia una messa a fuoco, una continua ricerca e anche un’accademia che con le migliori risorse e competenze aiuti a scrutare orizzonti; ma di retorica ci basta la metà, i fenomeni – e chi ci vive ed investe li avverte prima di qualsiasi ricerca – sono visibili ad occhio nudo.

Le città sono sempre più calde e ci andranno a vivere sempre più persone, le aree rurali sganciate dalla locomotiva del mercato hanno vagoni sempre più vuoti e vecchi, e le politiche pubbliche non sono riuscite a rimettere sui binari l’intero treno dello sviluppo, della crescita, della redistribuzione e della riduzione dei divari e delle diseguaglianze.

E non è un tema solo italiano.

Nell’ottava relazione sulla politica di coesione della Commissione europea «Coesione in Europa verso il 2050» (2022) il verdetto è lapidario su un periodo che comprende quasi tre cicli della programmazione settennale dei Fondi Strutturali e di investimento europei (SIE) il 2000-2006, il 2007-2013 e – parzialmente – il 2014-2020: sono state un fallimento le politica di coesione non solo per l’Italia, ma anche per altri Paesi dell’Europa meridionale, in modo particolare la Grecia, la Spagna e il Portogallo.

Non è questa la sede in cui approfondire la valutazione della Commissione Europea ma è interessante almeno sottolineare due cose: la fragilità del sistema euro-mediterraneo che indebolisce la coesione e l’accorcia ad una dinamica metro-montana e la perenne vigilia di un qualcosa che sta per accadere, almeno nei documenti di programmazione, ma non accade.

Ci rendiamo conto che andrebbe ricercata e sviluppata la relazione tra internità e mediterraneità anche lungo il binario della storia, cosi come andrebbe digerita – in particolare dalle classi dirigenti e con più metabolizzazione da parte decisori pubblici, a proposito di programmazione – l’idea, per dirla con le parole di Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, che “il tempo è superiore allo spazio”.

“Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi”.

E allora partiamo da una considerazione, o meglio da un interrogativo per capire quali processi avviare affinché non sia lo spazio a dominare ma il tempo a guidare: è possibile trovare un nuovo equilibrio tra spazi troppo vuoti – forse non ripopolabili – e spazi molto densamente abitati, difficilmente riformabili per renderli sostenibili?

La sola strategia per le aree interne non può invertire questo processo, non poteva e non può farlo; nessun fachiro può pensare di incantare persone per rispedirle nelle aree rurali. E anche la poesia naufraga in questo mare!!!

Ma proviamo a capire se dentro i cambiamenti climatici e digitali, le migrazioni e i movimenti di persone e popoli, si potrà vivere un po’ meglio: sia cinque persone in mille metri quadrati che mille persone in cinque metri quadrati.

Tra città e campagna la temperatura è differente. Banale, dopo circa due secoli da quando, nel 1820, Luke Howard, un farmacista londinese, pubblica The Climate of London, un testo in cui si condensano nove anni di misurazioni di temperature tra il centro di Londra e i territori circostanti. La conclusione? Nelle aree rurali il mercurio sale meno, e la differenza rispetto alle aree urbane si accentua di notte. Oggi si calcola una differenza mediamente di 6,4 C° a vantaggio delle campagne.

E ancora, 1200 ricercatori consorziati nell’Urban Climate Change Research Network (UCCRN), studiando il clima nelle città, sono giunti a queste rilevazioni: nel mondo in 350 città si vivono condizioni di caldo estremo e nel 2050 saliranno a 970, e cresceranno da 200 milioni a 1,6 miliardi gli abitanti che per periodi di almeno tre mesi l’anno non vedranno scendere le temperature medie sotto i 35 C°.

Stefano Mancuso, nel suo ultimo libro “Fitopolis, la città vivente” (edizioni Laterza, 2023) propone (a dirla con una estensione retorica) una piantumazione “manu militari”, tale ad esempio, da sostituire la Cristoforo Colombo a Roma con un viale alberato almeno per iniziare a ridurre l’estensione della impronta ecologica della Capitale che occupa, in termini di ettari, circa due terzi del territorio italiano.

Nella prospettiva che i viali alberati sostituiscano le strade di auto, è possibile pensare che ora, non tra decenni, un diritto garantito in montagna è anche un albero piantato in città per evitare che ulteriore capitale umano scivoli a valle ingolfando il troppo pieno e svuotando il troppo vuoto?

È possibile pensare che garantire il diritto alla salute, all’istruzione e alla mobilità in montagna è un bosco che cresce in citta? È un investimento nel “tempo superiore allo spazio”.

Si può ragionare sulla opportunità che può essere determinata da una fiscalità di vantaggio e/o l’incentivo per la produzione di beni e servizi, l’organizzazione del lavoro – smart working, cooperative di comunità, etc – e potenziali dividendi ed utilità che possono provenire da terre, boschi ed acqua per cittadini ed imprese? Non sarebbe questa anche una foresta che cresce in città? Un investimento “che avvia processi, non occupa spazi”.

Questo attiene alle scelte dei decisori pubblici che non è detto che nel tempo – alcuni segnali ci sono se si osservano gli orientamenti della finanza – possano contribuire a stimolare il capitale a ricercare luoghi per respirare, almeno un po’, a pieni polmoni e chissà se l’ambiente e la salute non siano forze tali da ridurre il peso della “mano invisibile del mercato” e chissà se la ricerca del ben-essere non sia una maggiore spinta di libertà dalla “merce”.

Un paradigma totalmente ribaltato dal punto di osservazione in cui il fallimento di mercato è appunto determinato da una bilancia che pesa il PIL anche quando si costruiscono bombe, si distruggono ospedali, ammazzando bimbi, per poi ricostruirli.

E poi c’è da osservare l’andamento demografico per evitare che il capitone ci sfugga, cioè i destinatari delle politiche non si trovino nel giorno, nell’ora e nel luogo “programmato”.

Senza cedere a catastrofismi e a letture talvolta stereotipate che osservino il continente africano con fare occidentale, la tendenza è che nel 2060 la popolazione aumenterà nelle regioni tropicali e sempre di più si andrà verso nord dove si nascerà meno e la popolazione sarà sempre più anziana. A proposito di internità e mediterraneità, e dello sguardo che necessariamente si proietta oltre la geografia “regionale” nel rapporto tra montagna e città.

Questa estensione di visione strategica andrebbe indagata: il Mediterraneo non è solo un tema della costa italiana (“Il mare non bagna Napoli”) ma dell’intero Paese, le cui geografie e i luoghi sono interconnessi e funzionali come scheletro, organi ed apparati del corpo umano.

Le tendenze demografica sono chiare, non c’è bisogno del microscopio e del vetrino.

E se pensassimo il futuro dei nostri paesi investendo sul benessere della terza e quarta età? Non sarebbe una scelta efficace per una programmazione che misuri i suoi obiettivi con la tendenza demografica tale da incrociarla nella realtà ed afferrarla nel futuro? E in questo incrocio non si troverebbero anche i giovani e possibili opportunità di lavoro?

Proviamo a capire cosa può significare evitare che gli obiettivi scivolino dalle mani come il capitone e il mercato non ne determini ulteriori fallimenti che in realtà si traducono in una lenta, inesorabile e ferale, per questi territori, disidratazione del welfare.

  • Paesi sicuri per la salute: efficaci reti “tempo dipendenti” (cardiologica per l’emergenza, traumatologia, ictus e quindi neonatologica e punti nascita). Adeguati pronti soccorso, accessibilità e fruibilità per prestazioni di qualità; sistema di emergenza/urgenza (ambulanze ed elisoccorso) “in casa” per tutti accanto ad eccellenti ospedali raggiungibili ma non “sotto casa” per tutti.
  • Paesi sicuri per l’assistenza e la riabilitazione: la telemedicina per il consulto, il monitoraggio e il controllo. Luoghi di riabilitazione e di convalescenza con prestazioni e servizi avanzati e di qualità immersi nella natura. Luoghi di impegno e di movimento magari in botteghe per la produzione di oggetti artigianali ed artistici.
  • Paesi sicuri contrastando il dissesto idrogeologico, riducendo il rischio da eventi atmosferici e terremoti: mettere in sicurezza il territorio ed investire sul patrimonio edilizio.
  • Paesi sicuri ed accessibili: zero barriere architettoniche, investimenti sulla domotica, ma anche norme urbanistiche che mettano uno stop al consumo del suolo e siano più flessibili rispetto al “costruito”, paesi per persone con disabilità.
  • Paesi che costino meno: comunità energetiche sostenibili che consentano di liberare risorse dalle pensioni per reinvestirle nell’assistenza e nei consumi di prodotti biologici e a km zero.
  • Paesi in cui il cibo sia di qualità: verificare la “sovranità” rendendo tracciabile la filiera ed il territorio, attraverso registri distribuiti ed immodificabili con l’utilizzo della tecnologia blockchain.
  • Paesi abilitati ed abilitanti per frequentare gli spazi digitali accompagnati da tutor giovani che dedichino un paio di ore a settimana – una forma di servizio civile – andando oltre il Metaverso e assumendo una meta sociale verso cui camminare.
  • Paesi in cui e da cui muoversi non sia un ostacolo: investire in infrastrutture sostenibili e ripensare la mobilità “per dentro e per fuori”, nel comune e tra comuni di un comprensorio più vasto organizzando servizi che colgano l’uso come opportunità anche per una economia circolare spezzata dal “possesso” e dalla “proprietà”. Non se ne chiede l’abolizione ma una “messa a disposizione”, una condivisione di mezzi e strumenti che sia conveniente, solidale e sostenibile per tutti, per oggi e per domani.
  • Paesi in cui ci si occupi dei fiori e degli alberi, del decoro, dei colori e della bellezza.
  • Paesi in cui, nei mesi più difficili da vivere (autunno/inverno), si investa sullo spettacolo dal vivo per dare qualità ed offerta artistica e culturale facendo crescere le opportunità per chi ci vive. Ne guadagneranno anche i turisti – nei luoghi di provenienza hanno già questa possibilità – perché saranno accolti con maggiori sorrisi e leggerezza dagli abitanti del luogo che avranno combattuto un po’ la tristezza delle stagioni che seguono l’estate e precedono la primavera.

E se ci possiamo consentire una riflessione più audace potremmo dire che i nonni sarebbero anche un ottimo motivo per “incentivare” nei paesi lo smart working e su cui, in verità, andrebbe fatta qualche scelta più coraggiosa e strutturale; un welfare familiare e di comunità renderebbe non solo più caldi e vissuti gli affetti ma anche meno impervio il cammino di crescita di un figlio, rispetto ad un condominio in città.

Lasciamo a voi continuare.

Aggiungiamo un solo elemento, e partiamo da questa domanda: nei paesi come sopra descritti non si potrebbe vivere in un futuro prossimo meglio che nelle città?

Le ondate di calore, nei mesi estivi, fanno crescere nelle città la mortalità tra gli over 65enni, l’effetto maggiore è riscontrato tra gli over 85enni. E la temperatura nei prossimi decenni subirà ulteriori aumenti indotti dai cambiamenti climatici. Anche se dovessimo comportarci bene, gli effetti positivi sul nostro pianeta non saranno comunque immediati. Siamo anche consapevoli che ci sarà un allargamento delle fasce di povertà e il crinale economico su cui gli anziani saranno costretti a camminare sarà più stretto.

Le città per cambiare in un tempo medio devono trovare un nuovo equilibrio con l’Italia interna: serve una terapia d’urto per gli spazi troppo pieni e un laccio emostatico per bloccare l’emorragia negli spazi troppo vuoti. Per rendere l’idea potremmo chiamarla “convenienza (de)localizzativa”? Questa scelta ha un costo, o meglio, è un investimento che “classici” parametri di mercato consiglierebbero di non realizzare; non ci sono abbastanza numeri. E invece, come ormai sembra evidente, la remunerazione di capitali impiegati per i riequilibri e per combattere le “policrisi” potrebbe essere conveniente se si evitasse di farsi risucchiare dalle sabbie mobili del presente.

Non si potrebbero affiancare le “cure paesane” alle “cure termali” che sono per l’Organizzazione Mondiale della Sanità nulla di più sono un’antica forma di terapia dell’Occidente; non è un farmaco ma l’insieme di strutture e servizi integrati con risorse naturali.

Le legge-delega per la non autosufficienza (legge 33/2023) che mira a coordinare e semplificare le attuali politiche per anziani cercando di ridurre la frammentazione che caratterizza il settore potrebbe essere una vera e concreta opportunità da cui partire?

All’ articolo 3 comma 9 della legge 33/2023 è scritto: “promozione di programmi e percorsi volti a favorire il turismo del benessere e il turismo lento come attività che agevolano la ricerca di tranquillità fisiologica e mentale per il raggiungimento e il mantenimento di uno stato di benessere psico-fisico, mentale e sociale, come obiettivo ulteriore rispetto a quello della cura delle malattie ovvero delle infermità”.

Dopo l’analisi, la riflessione e la prospettiva che possiamo intravedere, cosa ci spinge a non considerare tutte queste idee come qualcosa in più che un manifesto della “comunità dell’utopia”? Siamo perfettamente consapevoli delle difficoltà, delle insidie e del tempo per arrivare al traguardo. Ed appunto per non legare i risultati a medio-lungo termine alla volontà del decisore pubblico, sin da oggi c’è bisogno di avviare un percorso di avvicinamento a questa comunità possibile, partendo proprio da uno sguardo “laterale” che aiuti a superare prima i luoghi comuni e poi adottare soluzioni realistiche e immediate.

Perché “laterale”? Prendiamo ad esempio il turismo e partiamo dal presupposto che il primo vero luogo comune per aree “a fallimento di mercato” è quello di chi lo immagina come una leva uguale per tutti, come una sorta di antidoto contro lo spopolamento da somministrare a prescindere da una analisi su contesti, situazioni e luoghi. Una ricetta salvifica su cui si poggiano le speranza anche di una buona parte di amministratori locali a quali non si offrono certezze ed orizzonti verso cui navigare.

Non basta uno spot per fare “marketing territoriale” e portare turisti a visitare chiesette, borghi, boschi. Così come è da valutare come condizione necessaria ma non sufficiente l’attesa e la speranza (a volte pretesa) che ad investire grandi risorse sul proprio territorio siano soggetti pubblici e istituzionali, a cui affidare ogni forma di destino. In alcuni territori ingenti risorse pubbliche sono state utilizzare per realizzare “grandi attrattori” decisi senza sufficienti studi di marketing, calati su territori non accoglienti (in termini di servizi turistici) e dopo pochi mesi abbandonati nel nulla, lasciando sul groppone dei contribuenti spese enormi di risorse pubbliche.

In Italia il turismo pesa il 6/7% del PIL, e tale percentuale si raddoppia considerando indotti ed economia indiretta. Ma su questa bilancia ci sono le destinazioni turistiche consolidate e presenti nel marcato globale; c’è anche tanto mare. Quanto potrebbe pesare il turismo in un’economia di una picciola comunità interna?

Invertiamo lo sguardo: se vive bene un restante il luogo potrà essere anche destinazione per un “errante”.

I settantenni di oggi sono ancora perfettamente in condizione di viaggiare ed essere autosufficienti e rappresentano una clientela turistica con disponibilità economica adeguata, che esistono condizioni di partenza nelle aree montane e nei comuni che con piccoli cambiamenti possono essere ospitali per un long tourism che consenta a coppie di soggiornare per mesi in sicurezza e tranquillità.

Ma se non vive bene un settantenne del posto come si può pensare che un suo coetaneo forestiero scelga quel luogo come destinazione?

Un approccio che prelude ad investimenti più impegnativi di cui parlavamo all’inizio ponendoci obietti più strutturati nel tempo; una forma di lettura del turismo più adatta alle condizioni di partenza che permette innanzitutto di sperimentare concretamente dove e su cosa indirizzare investimenti.
Soluzioni possibili nell’immediato che sono in linea con un mondo che cambia e che si evolve. Per questo i luoghi comuni rappresentano il primo vero ostacolo da superare. Pensiamo ad esempio all’enogastronomia.

Spesso ci si illude che basti una PAT (al Ministero per le Politiche Agricole sono censite oltre 5mila Produzioni Agricole Tradizionali) per avere un “volano di sviluppo”, organizzare qualche convegno e fare qualche comunicato stampa per avere “fatto marketing”, pensando di ripercorrere le orme (in maniera similare e quindi “diretta”) di grandi destinazioni enogastronomiche italiane che sulle loro produzioni riconosciute (pensiamo ad esempio a grandi terre di vini pregiati) hanno saputo costruire offerta turistica stabile. Ma non può essere così altrove. Investire sul turismo della terza e quarta significa relativizzare l’idea di offrire all’ospite tutto il meglio della propria tradizione, e contestualizzare scelte e cucina secondo direttive della salute, ad esempio, come proposto da Dipartimento di Nutrizione dell’Università di Harvard con il “piatto del mangiar sano”.

Da una comunità accogliente si riparte sapendo che ci si porta via un po’ di ben-essere non sottraendolo a chi resta, a cui questa condizione potenzialmente deve essere garantita sempre. Il ben-essere di chi lascia un luogo è anche l’idea di aver portato dentro la comunità una nuova storia, uno sguardo diverso, nuovi sentimenti e forti passioni.

A cosa pensiamo e cosa proponiamo dunque come Fondazione Appennino?

Non vogliamo sicuramente trasformare in RSA i nostri paesi.

Ma pensiamo a luoghi sicuri, accoglienti e del benessere in cui appunto devono stare bene innanzitutto i restanti, sostenuti anche da una fiscalità di vantaggio; per cittadini, professionisti ed imprese che decidono di ridurre il carico nei luoghi troppi pieni aiutando i cittadini a stare meno peggio (o speriamo meglio!)  ci deve essere un “premio”, un “bonus”, un incentivo.

E poi attivare uno strumento normativo per le “cure paesane”: si certifica un paese (matrici ambientali, strutture, filiera alimentare, organizzazione dei servizi dalla mobilità alla telemedicina, dalla fisioterapia ai cammini, etc etc) e incentivando le imprese del terzo settore e la cooperazione, in particolare, accompagnando anziani in cui la stagionalità può essere un maggiore condizione di benessere. E come per le “cure termali”, a particolari condizioni di prescrizioni e di reddito, entrano nel Sistema Sanitario Nazionale, per le “cure paesane” devo esserci particolari forma di detrazione o di bonus, cosi come per i gestori di RSA (che magari per alcuni mesi dell’anno vedono svuotarsi i propri centri) e per il terzo settore e la cooperazione sostenute progressivamente per il livello di intensità di servizio e di presa in carico, non del paziente, ma della persona.

Speriamo di aver reso il concetto, di aver lasciato cadere anche qualche provocazione.

Non vogliamo semplificare il problema e stimolare giudizi frettolosi. Andrebbe tutto molto approfondito ma lo spazio che abbiamo preso è anche troppo e quindi non è possibile riportare il lavoro di ricerca, di progettazione e di messa a terra di Fondazione Appennino che si può trovare, almeno in parte, sui nostri canali social, a partire da civiltaappennino.it e sul nostro ultimo libro in libreria da gennaio 2024 e pubblicato dalla casa editrice Rubbettino: “Comunità Appennino, superare l’internità”.

Gianni Lacorazza e Piero Lacorazza
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