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Civiltà Appennino

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La risacca della pazienza, l’eco del coraggio

La montagna e i suoi figli tra scambi e simbiosi

di Emiliano Cribari


 

La civiltà dell’Appennino ha origini salate. Viene dal mare. Io sento il profumo del mare ogni volta che prendo il sentiero tra i pini che dal cimitero di Castagno d’Andrea arrampica su fino alla sorgente dell’Arno.

A pochi passi da qui, immersi nel catino di castagni della Valle del Falterona, vivono Beppe, Ivana e i loro due figli. Conobbi Beppe un paio d’anni fa, tornando da una camminata verso il Giogo di Castagno. Passai davanti a casa sua. Beppe stava parlando con una persona. Ci presentammo. Gli dissi che ero in cerca di tracce del poeta Dino Campana, transitato da lì durante il suo viaggio al santuario francescano de La Verna.

Fu di una gentilezza sconcertante. M’invitò subito a entrare per prendere un caffè, un bicchiere di vino, qualcosa. Io accettai con la mia solita, prudente, reticenza. In quegli istanti di luce abbacinante mi s’aprì un mondo. Popolato da oggetti, profumi, tradizioni, modi di vivere coincidenti al mio sentire. Capii che ci saremmo rivisti, molto presto. Glielo dissi, prima di salutarlo e di riprendere il sentiero.

Pochi minuti più tardi, mentre camminavo ripensando all’accaduto, sentii una macchina dondolare sulla strada sterrata. Mi feci da parte per farla passare. Ma la macchina m’affiancò: era guidata dall’uomo che avevo conosciuto da Beppe.

“Vuoi un passaggio?”.
“No grazie, vado a piedi”.
“Aspetta, vorrei dirti una cosa”.
“Mi dica, certo”.
“Sappi che hai incontrato una delle persone più buone che io conosca. Di lui puoi fidarti. Torna a trovarlo. Ti troverai bene con lui”.

Fu così che una decina di giorni più tardi ritornai a “Le Casine”.

Quell’alcova che osservava, come se fosse l’ultimo baluardo dell’umanità, la vallata sconfinata, le vette smerlate delle montagne che fluitavano la Romagna in Toscana, m’offriva quiete e armonia. Stavo bene, seduto tra i castagni ad ascoltare i torrenti muggire, i fossi sgranocchiare le foglie accartocciate dal ricordo del sole. Era una vita che agognavo, quella. Che non avevo avuto il coraggio, la cultura, la forza, l’opportunità di creare.

Da sempre ammiro chi sa fare. Succedeva anche a mio nonno, forse, quando prima dell’alba s’infilava nei retrobottega dei fornai per fotografarli al lavoro. Poi era il turno dell’edicolante e infine cominciava il lungo giro degli artigiani: fabbri, falegnami, orafi, sarti. Chiunque lavorasse con le mani, prono, concentrato, affaccendato sulla polvere vorticosa delle cose in divenire era la sua materia preferita di studio, ragione d’amore e ammirazione, di devozione.

Osservai Beppe per giorni. Senza fare una sola fotografia. Erano i giorni dedicati alla raccolta delle castagne. E quella casa, serafica e solitaria, più la miravo e più mi sembrava il centro esatto del mondo. L’uscita felice dal rumore, dallo squallido clamore dell’esistere attuale. Mio, di molti.

Soltanto osservare mi depurava. Ascoltare – il lavoro umano che s’accorda con l’orchestra inesausta della natura – mi faceva ritornare a uno stato che avevo conosciuto e che evidentemente non avevo ancora dimenticato. La porta, quella di casa, divenne presto un simbolo. Beppe l’apriva per chiunque: amici, viandanti, perditempo. Ogni incontro un’imperdibile occasione per conoscersi.

La prima stanza era casa, nell’accezione più antica e rurale del termine: un rifugio per chi viene e chi va, e per chi resta. Il luogo in cui scaldarsi, raccontarsi, rifocillarsi davanti al calore del fuoco. Il luogo in cui riflettere su quello che è stato. Su quanto poteva essere complicato sciogliere con cura il groviglio delle nostre radici e quanto invece è stato semplice tranciarle di netto.

Beppe è rimasto. Annodato al cordone ombelicale della terra da cui è stato partorito. Lo osservo cucinare, accarezzare i gatti, i cani, dialogare senza futili isterie con i figli – Luca e Andrea – che scorribandano per casa indaffarati. Lo osservo nel pollaio mentre sposta, aggiusta, appoggia, e intanto sgrana una polvere gialla di vento in testa alle galline festanti. Serra il cancello e guarda il cielo: è quasi sera.

“Vado a chiudere le pecore. Vuoi venire?”.

Lo seguo con gioia. Nella stalla incontro Bella, la bianca custode del gregge. Poi finiamo a parlare di parti. Di quelli tragici, difficili, curiosi, ai quali Beppe ha faticosamente dovuto assistere e talvolta partecipare.

“E durante l’anno cosa succede?” gli chiedo. “Cosa fate? D’inverno, quando nevica, quando piove a dirotto per giorni…”.

Sorride. Sa che la chiave di tutto sta lì. Nella risacca balbettante della pazienza. Nell’eco prolungato del coraggio.

Quante altre volte gliela avranno posta questa domanda?

“Le cose da fare non mancano mai, qui. E certe volte, se sembra che manchino è un bene: così finalmente riposiamo!”.

In montagna viene il tempo di tutto: semina, essiccazione, battitura, brucatura, taglio. Tutto ha un tempo, un ritmo incerto ma definito. Soltanto gli imprevisti accadono fuori dal tempo.

Mi chiedo dove abbia imparato, Beppe, a fare tutte queste cose. Glielo chiedo e come sempre sminuisce.

“Ho imparato, piano piano, con il tempo”. Sempre il tempo. Mi piace pensare come si debba sentire, un uomo che sa fare. E mi domando se si sappia ancora annoiare.

“Certo. Viene anche il tempo della noia. Può accadere”. Soprattutto, immagino, nei giorni bui e trapuntati di pioggia ferale. Lungo tutto l’Appennino, questo è il tempo di preparare. Una conserva, un manufatto, un’idea.

“Un’idea?”.
“Anche, sì” spiega Beppe raccogliendo dai rami di un castagno l’ultimo graffio di luce.
“Qui, per esempio” e indica un prato a un centinaio di metri dal cortile di casa “qui in primavera vorrei costruire una carbonaia. Mentre lì…”. E si interrompe. Sospira. Struscia il dorso di una mano sulla fronte. “Lì ho un sogno”.
“Quale?”.
“Quello di fare una iurta per viandanti, per chi è in cammino e ha bisogno di sostare”.

Beppe ha parole soppesate, chiare, calcate scientificamente sulla realtà. Se dice una cosa la fa. E se non la fa è perché ci ha provato e non è andata come voleva o perché è stato ostacolato.

“Ma dici che posso tornare, a trovarti? Sei sicuro che non disturbo?”.
“Figurati, quando vuoi!”.

Ero felice. Già dentro una dolce abitudine della quale non avrei voluto fare a meno. Feci passare due o tre giorni, quel tanto che poteva bastare per non sembrare invadente. Due o tre giorni d’attesa e di rinascita personale. La terza volta che andai a “Le Casine” conobbi finalmente anche Ivana. Mite e sorridente, accogliente e vera. Così simile alla terra che abitava: una donna forgiata dalla sua stessa, prodiga, terra.

Abitare l’Appennino è forse davvero una questione di scambi, e di simbiosi. Tra piante e animali, tra montagne ed esseri umani. Aspettando il caffè parlammo di libri e di pittura: scoprii che Ivana scrive e dipinge. Così il tempo non s’ammazza, d’inverno, ma anzi s’alimenta, s’ingrassa. E si ringrazia. Fu proprio a Ivana che accennai l’idea che avevo maturato. Sapeva che ero un fotografo e che tutto il mio lavoro si basava su due gesti: nascondermi e documentare. Silenziosamente. Piccole storie.

Nuove e vecchie forme di resistenza, di creativa, pacifica dissidenza. Messa in atto con le mani e con il sudore. Con la curiosità, con la pazienza.

“Mi piacerebbe avere la possibilità di raccontare un anno di vita in montagna. Il lavoro, sì, ma anche la vostra quotidianità. Anche la noia, la tristezza, tutto”.

Io non cercavo le azioni salienti ma i vuoti. Anche e soprattutto i vuoti. La verità, insomma. Quella per cui non ci si mette mai in posa e non si guarda il fotografo mentre scatta. Io non esisto, dissi loro. Io sono il prima e il dopo. Sono un bracciante, una pecora, un cane, una castagna. Ne parlai subito anche con Beppe, proprio sulla porta di casa. Terrorizzato all’idea di un loro cortese ma diretto rifiuto. E invece no: mi giunse forte un sorriso, immediato, dritto al cuore, da entrambe le parti.

“Certo. Sarebbe un piacere. Quando iniziamo?”.

Il primo scatto è datato 18 ottobre 2020. È la fotografia, artisticamente insignificante, di un castagno calvo, sbiancato. La terrò per ricordo. Un segnavia di ciò che sarebbe accaduto. E che ancora accadrà, visto che il viaggio è ancora a metà. Da quel giorno, quando posso, frequento Beppe, Ivana, i ragazzi, gli animali e i boschi tutt’intorno – quello che io sento come il mio Appennino – con una gioia infantile.

Lascio la Panda sgangherata al cimitero del paese e faccio a piedi il sentiero. O quello alto o quello basso, dipende. Li conosco a memoria. Potrei farli a occhi chiusi. Come se fossero l’anticamera della meraviglia, della leggerezza. Mentre cammino lentamente, sempre più lentamente per assaporare ogni momento, penso a ciò che quel giorno potrei vedere. A come potrei fotografarlo. E quando ritorno viene a trovarmi un’insondabile, profondissima quiete. E penso a quando tutto questo, inevitabilmente, finirà. Sono fatto così. Naufrago nel tempo. Remo incerto tra gli istanti.

Vivo in montagna ma ho radici conficcate nel mare. Ho origini salate. Come l’Appennino. So bene che la gioia deve tutto il suo sapore all’insaziabile trascorrere del presente.

 


Foto di Copertina di Emiliano Cribari

Emiliano Cribari
Poeta, scrittore, fotografo, è stato vincitore di numerosi premi e riconoscimenti. Ha pubblicato "La cura degli istanti" (Transeuropa, 2019) e "La vita minima" (AnimaMundi, 2020). La collaborazione con Civilà Appennino è iniziata grazie ai racconti dei suoi cammini in Appennino sui canali social della nostra rivista.
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