Ogni diritto garantito è un albero piantato
Ogni diritto garantito in aree appenniniche (e alpine) è un albero piantato per evitare che scivoli a valle ulteriore capitale umano che inondi le città; quindi ogni diritto garantito in aree montane e rurali è un albero piantato anche in città.
Mai come in questo caso la relazione tra cittadinanza e botanica, assetto idrogeologico e movimenti demografici rende l’idea di una impellente necessità: trovare un nuovo equilibrio tra spazi troppo vuoti – forse non ripopolabili – e spazi molto densamente abitati, difficilmente riformabili per renderli sostenibili.
Tra metafore e realismo mi sono imbattuto, con ulteriori stimoli per ricerche e riflessioni, nel libro di Stefano Mancuso “Fitopolis, la città vivente” (edizioni Laterza, 2023). Confesso che non capisco un tubo di botanica e la scelta di acquistare questo libro è stata estremamente coraggiosa.
L’audacia ha pagato: non è un libro di botanica ma sulla vita e la morte del pianeta, osservato dalle inerzie che potrebbero rendere insostenibile la vita nelle città nel futuro.
Confesso che, una volta compreso che il libro non parlasse di botanica, ho avuto timore che anni di ricerca, confronti e riflessioni potessero essere seppelliti in una giornata, il tempo che, tra curiosità ed ansia, ho impiegato per leggere il libro.
Da quali considerazioni partivo, e parto: tra città e campagna la temperatura è differente. Banale, dopo circa due secoli da quando, nel 1820, Luke Howard, un farmacista londinese, pubblica The Climate of London, un testo in cui si condensano nove anni di misurazioni di temperature tra il centro di Londra e i territori circostanti. La conclusione? Nelle aree rurali il mercurio sale meno, e la differenza rispetto alle aree urbane si accentua di notte. Oggi si calcola una differenza mediamente di 6,4 C° a vantaggio delle campagne.
E ancora, 1200 ricercatori consorziati nell’Urban Climate Change Research Network (UCCRN), studiando il clima nelle città, sono giunti a queste rilevazioni: nel mondo in 350 città si vivono condizioni di caldo estremo e nel 2050 saliranno a 970, e cresceranno da 200 milioni a 1,6 miliardi gli abitanti che per periodi di almeno tre mesi l’anno non vedranno scendere le temperature medie sotto i 35 C°.
I cambiamenti climatici e demografici, le migrazioni e la tendenza ad affollare le città sono processi che la sola strategia per le aree interne non può invertire; nessun fachiro può pensare di incantare persone per rispedirle nelle aree rurali. E anche la poesia naufraga in questo mare!!!
Anche se i versi sono più forti del vento quando i cuori diventano il motore per una giusta direzione.
Ma il sentimento non può essere una cataratta.
E se i nostri occhi leggessero per esempio che in Italia – come è scritto in atti ufficiali della Commissione Europea – siamo di fronte a venti anni di fallimento delle politiche di coesione?
Le città sono sempre più calde e ci andranno a vivere sempre più persone, le aree rurali sganciate dalla locomotiva del mercato hanno vagoni sempre più vuoti e le politiche pubbliche non sono riuscite a rimettere sui binari l’intero treno dello sviluppo, della crescita, della redistribuzione e della riduzione dei divari e delle diseguaglianze.
A proposito. Anche l’acqua nelle ampolle andrà in ebollizione e i patriottismi respingenti potrebbero annegare nella propaganda visto che al 2060 la popolazione aumenterà nelle regioni tropicali e sempre di più si andrà verso nord dove si nascerà meno e la popolazione sarà sempre più anziana.
E infine un ultimo dato che riguarda l’Italia, per poi concludere con una considerazione.
L’impronta ecologica di Roma è 20 milioni di ettari, è la superficie misurata per rendere necessaria la vita nella Capitale, l’impatto della Città sull’ambiente. Stiamo parlando di un territorio equivalente a tutto il centro sud, isole ed Emilia Romagna compresi. C’è un evidente squilibrio tra chi consuma e chi produce.
Per favorire un diverso metabolismo, inefficiente rispetto al loro grande appetito, le città dovrebbero sostituire le vie delle auto con le vie degli alberi, conclude Stefano Mancuso nel libro sopracitato. Ovviamente la mia è una semplificazione di un ragionamento complesso ma tuttavia non si discosta molto dalla proposta del botanico.
Concludo. A me l’idea di Mancuso piace e sarebbe davvero interessante avviare questa piantumazione “manu militari”. Ma forse allo stesso tempo dovremmo considerare che l’Italia, per parlare solo di noi, non è solo Roma (e qualche altra città) ma un territorio più grande nel quale sarebbe necessario rafforzare diritti di cittadinanza, provare ad evitare che sbagliate o assenti politiche pubbliche accelerino l’esodo verso i sistemi urbani, rendendo ancora tutto più difficile e disordinato. Non sappiamo quali “sorprese” ci può riservare il futuro ma al momento tra la trasformazione delle strade in vie degli alberi e lo svuotamento repentino delle aree rurali e montane possono essere considerate anche ulteriori politiche?
Vorrei utilizzare le parole di Massimo Troisi; non un giorno da leone e neanche cento giorni da pecora ma cinquanta da orsacchiotto! Considerare, insieme, una rivoluzione verde nelle città e maggiore cittadinanza nelle aree rurali e montane potrebbe essere una strada perseguibile? Direi anche quasi obbligata se vogliamo perseguire ed accelerare con convinzione un piano che raggiunga gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Fare scelte nette ed incentivanti come, per esempio, mettere a terra concretamente le “cure paesane” (link) in convergenza parallela con le cure termali.
Garantire il diritto alla salute, alla istruzione e alla mobilità, e alla produzione e al lavoro anche attraverso una differente fiscalità nelle cosiddette aree interne è un albero piantato per evitare che ulteriore capitale umano inondi i sistemi urbani. Mi spingo oltre: un diritto garantito nelle aree interne è anche un albero piantato in città. E cosi i territori sarebbero anche da riclassificare e rinominare poiché le interconnessioni renderebbero più sbiadita la differenza tra “centro” e “periferia”.