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Civiltà Appennino

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Quel “qualcosa in più” che lega passato, presente e futuro

Il dibattito sulle aree interne oltre una nuova questione meridionale

di Annalisa Romeo


Non so se è una mia impressione ma mi sembra che il divario tra luoghi con densità abitativa minore e centri con densità abitativa maggiore sia sempre più ampio. Ampio in termini non di contrapposizione ma di disinteresse o forse disinformazione dei “metropolitani” rispetto ai “paesani”.

La narrazione, che caratterizza buona parte del mio lavoro nel mondo della comunicazione digitale, ha un valore enorme, le parole possono avere conseguenze e rappresentare la forza di un pensiero, che in mancanza di un  altro pensiero contrapposto, condiziona i singoli e si autoalimenta. Ecco forse negli ultimi anni la costruzione di pensiero, guidata spesso da chi i paesi li conosceva poco, ha costruito una retorica che si autodistrugge e che non costruisce.

Quando si parla di overtourism, di eccessiva antropizzazione dei territori che hanno portato a modificare gli assetti naturali degli stessi, quando si parla di prodotti agroalimentari di qualità, di corretta alimentazione, si ritorna sempre sulla soluzione che si dovrebbe e si potrebbe decentralizzare tutto su aree meno “affollate”, ma poi, quando si ritorna al tema delle opportunità, delle comodità e dei servizi siano essi sanitari, culturali e di mobilità, il buco nero respinge tutto verso le città sempre più congestionate, periferiche ma luogo di futuro.

Spesso sento dire “quanto tempo resterebbe una persona che ha vissuto in città in un paese interno?… due settimane, forse tre e poi scapperebbe!” e da cittadina di un paese lo comprenderei poiché anche io rilevo una mancanza di opportunità e servizi ma poi mi viene da pensare che non tutti i metropolitani vivono una vita da Tik Tok, sempre a cena, ad eventi e a fare shopping.

Oggi i dati della “Ricerca sulla Povertà Educativa in Italia” (link), realizzata da Fondazione L’Albero della Vita Onlus su 6 città (Milano, Genova, Perugia, Napoli, Catanzaro e Palermo) indicano che il 76% dei giovani non svolge attività ricreative e sportive quotidianamente, il 43% non ha casa libri adatti alla propria età e al proprio livello di conoscenza, il 53% non è mai stato al cinema nell’ultimo anno, il 37% ci è stato una volta sola e l’89% del campione non è stato a teatro nell’ultimo anno, mentre il 78% non ha partecipato a visite al patrimonio artistico, culturale e ambientale.

Forse c’è un errore che non bisogna commettere nella narrazione delle aree interne, quasi come se la questione si stesse sostituendo alla questione meridionale riducendola alla necessità di “aiutare” invece che investire.

È un errore nell’incapacità di cogliere da parte dei decisori, attraverso una attenta analisi, l’opportunità di investire nelle aree dove ancora si può crescere, si può costruire e si può migliorare.

Le famiglie di questi ragazzi, le famiglie degli immigrati che per fortuna ancora accogliamo nel nostro paese, le famiglie di chi vive nelle aree considerate non centrali potrebbero trovare una nuova dimensione di vita, di comunità e di crescita se la narrazione non fosse legata al tema dell’aiuto ma dello sperimentare nuove forme di economia e di eccellenza in questi luogo.

Collaborando con Fondazione Appennino che, con animo critico ma costruttivo, investe nella dorsale appenninica, ho partecipato al primo Festival del lavoro nelle aree interne, organizzato appunto dalla Fondazione, da Rubbettino Editore e dall’Associazione RESpro – rete di storici. Ho ascoltato tanto e ammirato le tre anime differenti, una più accademica di necessaria analisi e conoscenza, una più pragmatica e costruttiva di messa a terra delle questioni, mediate e portate a sintesi da chi anima ed interpreta il territorio.

A Soveria Mannelli, sede delle fabbriche Rubbettino dove si è svolto il Festival, è stato tangibile l’esempio, un modello di comunità possibile. Un paese di 3000 abitanti che a girarlo sembra molto più grande, con servizi, negozi e con aziende che lavorano e danno lavoro nel cuore della Calabria, lontano dalle città.

Se vuoi capire come sia possibile devi riportare il tutto alle persone, negli occhi degli imprenditori: audacia, conoscenza e umiltà.

Le industrie Rubbettino danno lavoro ad 80 dipendenti, al cui fianco ci sono altre imprese del territorio come il Lanificio Leo. Chi lavora sono famiglie che abitano questi spazi e grazie al lavoro portano i propri figli al cinema, al teatro e in viaggio perché vivere in un paese ti permette di vivere bene, di vivere con una filiera corta dove anche se tutto sembra lontano invece può essere a portata di mano.

In questi luoghi c’è la memoria, quella bella, quella che non ti fa piangere addosso ma che ti fa andare avanti, che ti indica la strada verso il rinnovamento come quel filo dai tanti colori che mai si spezza ma che invece sfili e riutilizzi per creare nuova bellezza.

Al Festival del lavoro delle aree interne ascoltando decine di ricercatori, studenti, e docenti universitari da tutta Italia che si sono occupati di progetti sulle aree interne, tra le tante e tante parole risignificate, è emersa forte la presenza nei paesi, nei luoghi della dorsale appenninica ma anche alpina, nelle valli e nelle montagne di questa piccola ma forte Italia, di giovani che vedono opportunità, di “minoranze creative che rigenerano le civiltà” e che non considerano queste aree spazi vuoti.

Florindo Rubbettino in chiusura dell’evento ha sottolineato la necessità di un’inversione di rotta non solo nei termini ma anche nell’approccio culturale e sociale nel narrare le aree non centrali e quindi non più per sottrazione – cosa manca, cosa è stato tolto, ecc,- ma per addizione e quindi non solo lavoro ma anche welfare, infrastrutture materiali e immateriali, innovazione per poter competere e concorrere.

Faccio mie le parole di Luisa Carrada ampliando il suo concetto di comunità al concetto di somma tra dentro e fuori, tra periferia e centro: “Nel suo significato più antico e profondo, quindi, comunità non è tanto appartenenza identitaria quanto una reciprocità dell’impegno a donare. E quello che connota la relazione è sia un dare che un darsi. Non la stabilità di un possesso, ma il rischio di perdere e ottenere nel fare insieme agli altri. Un mettersi in gioco per creare qualcos’altro.”
(blog.mestierediscrivere.com)



                                    
Annalisa Romeo
Digital media strategist, esperta di marketing turistico
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