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Civiltà Appennino

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Il vocabolario dei luoghi infranti – 3

Lo abbiamo definito un viaggio all’interno dell’anima della montagna ed infatti è stato un cammino lento e intenso attraverso le parole che descrivono i “luoghi infranti”. Ci ha accompagnato Emiliano Cribari, poeta fotografo e camminatore, con cui oggi percorriamo insieme la terza ed ultima tappa.


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I “luoghi infranti” sono i luoghi feriti, abbandonati, spesso dimenticati del nostro l’Appennino. Tornare a cercarli è un dovere, un religioso atto d’amore. Farlo in silenzio, con grazia e con cura una necessità. Ho cercato ventuno parole che potessero fare da fari. Quarantena, Respiro, Silenzio, Tenerezza, Urbanesimo, Vecchiaia, Zaino sono le sette parole che concludono il viaggio.

Quarantena

Quando a marzo 2020 l’Italia ha dovuto fare i conti col silenzio, per gran parte dei paesi è cambiato poco e niente. L’Italia interna è in quarantena da decenni. Dietro parole tutte nuove come lockdown o coprifuoco, in realtà c’era la solita antifona: la solita piazza vuota, il solito viavai di cani, gatti, mosche e zanzare. In certi luoghi anche i ricordi hanno smesso di girare. Fanno riflettere i dati sull’andamento del mercato immobiliare: un ammasso di persone cerca casa con giardino fuori dalle grandi città, ha imparato a coltivare, anela spazi d’aria aperta. Un virus intima le persone ad alzare la testa, a guardarsi intorno, vicino. Le costringe a riscoprire la campagna, il bosco. A sognare il respiro largo dei paesi. Le periferie osservano. Mute e ammutolite, senza novità. Ascoltano parole che descrivono bene la loro identità. C’è chi dice quarantena, lockdown, coprifuoco, e chi dice terremoto, spopolamento, lavoro. Un tempo i giovani lasciavano il piccolo per il grande alla ricerca di un lavoro. Oggi non più, non soltanto. La migrazione ha radici che affondano (anche) nella noia, nei “valori”, nella spasmodica ricerca d’opportunità. “Non Berlino ma Carpi” cantavano i CCCP. Restare è inopportuno.

 

Respiro

Esiste solo quando manca. A volte per sentirlo ci si siede per terra a occhi chiusi. I paesi hanno occhi apertissimi, spalancati. Respirano e si sente. Anche così, camminando. Basta stare in silenzio. Ordire un coro di respiri. Andare a tempo, insieme. Inspirare e sperare. C’è un momento preciso, prima di entrare nella stanza di degenza dei paesi, in cui rimpossessarsi del respiro è cruciale. È come dire eccomi, ci sono, ascolto. I “Padri del deserto” pregavano a tempo col respiro. C’è una parola, stupenda, che lo descrive: esicasmo. Incantarsi dei luoghi è l’esicasmo dei viandanti.

 

Silenzio

Chissà se gli uccelli s’incantano (come facciamo noi con loro) ogni volta che ci sentono parlare, cantare, gridare, accendere e spremere motori. Siamo abbondanza di suoni. Reclutiamo il silenzio soltanto quando ci viene chiesto. Poi non vediamo l’ora di tornare a sciamare. Entrare in un paese è come entrare in un luogo consacrato, fare visita a un malato. Non esiste altra unità di misura se non il silenzio. Silenzio è rispetto, è ascolto, è dare veste nuova e congeniale allo stupore. Silenzio è tornare alla radice. Assumersi il peso netto dei luoghi. Introiettarli. Nei luoghi infranti dalla diaspora umana del secondo Novecento, “silenzio” è la prima parola d’ordine. Lo oltrepassano il vento e gli animali. È il primo passo da fare per lasciarsi appartenere.

 

Tenerezza

Tenerezza è comprensione, compassione, forse è la forma più elevata dell’amore. Nelle case abbandonate, ripassate molte volte dalla gente e dal vento, resta sempre qualcosa; fosse anche un chiodo appeso a un muro. Quel chiodo ha una storia, è stato testimone del tempo che passa. Quel chiodo ha veduto, sentito, sorretto. I colori di una foto, i mesi di un calendario, un aglio, un disegno, finché un giorno, per un qualche motivo, è rimasto da solo, inchiodato al giorno e alla notte, alla ruggine, agli occhi migranti di chi lo ha guardato senza amore, senza tenerezza. Gli sarebbe bastato anche un sorriso, l’accenno di un sorriso. Tenerezza è dire grazie a ciò che resta. In questi luoghi chiamati minori, la tenerezza resuscita, conserva. Rilancia anche i ricordi che non sa, s’inventa storie, incarna la forza e il coraggio. La tenerezza è cosa fisica, animale. Dà battaglia all’indolenza.

 

Urbaneismo

Digitando urbanesimo su Google, la prima definizione che esce fuori è questa: “L’attrazione esercitata dalla città sulle popolazioni rurali”. L’attrazione. Che nell’Italia del secondo Novecento è diventata sinonimo di ipnosi, di poderosa e funambolica e inarrestabile fuga verso un sogno chiamato benessere. Riscatto da una vita insufficiente e misera. Chi sono stati gli ultimi a “chiudere” i paesi? Gli ultimi a partire, a desistere, a lasciarsi risucchiare? C’è chi li ha immaginati, descritti, intervistati, tentando una ricostruzione storica e sentimentale, un’indagine antropologica su un processo migratorio anomalo e fulmineo, ma non per questo meno impattante e meno traumatico. L’Italia abbandonata è davanti a un bivio: fare o non fare, come e dove fare. Forse le grandi città hanno veramente smesso d’incantare. Hanno meno da offrire. Niccolò Fabi scrive: allontanarsi è conoscersi. Magari sì, allontanarsene, tornare a sparpagliarsi, iniziare da capo in un’altra dimensione, può essere la strada migliore da fare.

 

Vecchiaia

L’Italia smarrita è l’Italia dei vecchi. Sono loro che tengono aperte le case, che guardano i campi, gli orti, che offrono acqua e cibo agli animali. Se oggi il paesaggio rurale ha ancora una forma “domestica”, è perché esiste un miracolo di vecchi che con le ultime forze riesce a seminare, ad annaffiare, a raccogliere, a potare, a bruciare, a incanalare. Basta confrontare una recente fotografia aerea di qualsiasi paesaggio naturale con una fotografia area dello stesso paesaggio realizzata anche solo cinquanta o sessanta anni fa: vaste zone antropizzate, che un tempo erano adibite a pascoli e a coltivi, oggi sono letteralmente divorate dai boschi. Miriadi di case intubate dai tronchi e dai rami e masticate dalle foglie. Dobbiamo ai vecchi quel poco che ci rimane. Anche soltanto per questo bisognerebbe ringraziarli. Andare a trovarli, compiere pellegrinaggi verso le rughe delle loro mani. Corre l’anno duemilaventuno: gli esempi iniziano a scemare. Siamo agli sgoccioli di un’umanità povera e generosa, che ha sperimentato il dono, severo, dell’astinenza. Bisognerebbe imparare da loro come si diventa vecchi.

 

Zaino

Quando ci si riferisce allo zaino si dice lui. Come se fosse una persona. Di solito un uomo: un amico, un padre, un fratello. Un soggetto di cui avere assoluta, profonda, fiducia. Se cede lo zaino finisce il viaggio. Si viaggia sempre in due: noi e il nostro zaino. All’inizio pesante, uggioso, contorto, alla fine leggero e perfino confortevole. Fare lo zaino è un’arte, una materia spirituale: costringe a privarsi di cose. Lo zaino è metafora di vita: meno è meglio. Togliere, smembrare, smantellare: alleggerire il carico aiuta a essere più lucidi, meno affaticati. Forse non ad andare più lontano ma a procedere meglio. Ogni grammo di troppo è un quintale per i nostri muscoli e le nostre ossa. Fare lo zaino è prendersi cura del poco. Fare di un tanto stanziale un poco che si muove. Significa accorgersi, svegliarsi, orientare una luce sicura su ciò che è futile e su ciò che è necessario. Le cose che servono realmente non stanno in uno zaino. Sono sentimenti, hanno la forma clemente degli sguardi e dei sorrisi. I luoghi solitari hanno sentori. Patendo, capiscono chi arriva da come arriva. Danno ciò che ricevono. Uno zaino leggero accompagna silenzio, educazione, rispetto. Chi lo porta avrà in dono il segreto della rinascita dei luoghi dimenticati.


Foto di Emiliano Cribari
Emiliano Cribari
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