
La sostenibilità è il fine, la misura è il mezzo
“Divari”, “distanze”, “percorsi” indicano grandezze che senza una misura non avrebbero senso. La misura “è il valore numerico – si legge sulla Treccani – attribuito a una grandezza, ottenuto ed espresso come rapporto tra un grandezza data e un’altra della stessa specie assunta come unità (unità di misura), e determinato con opportuni metodi o strumenti di misurazione”.
Senza la misura non esisterebbero i “divari”, le “distanze”, anche le disuguaglianze e quindi i percorsi per ridurle o annullarle nella idea del “migliore dei mondi” a cui aspirare, lavorando, nel frattempo, ad “un mondo migliore”.
Senza la misura sarebbe anche indefinito il concetto di sostenibilità e di equità intergenerazionale. O, peggio ancora, senza misurare la sostenibilità ci potremmo trovare – e ci siamo – a “compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”.
Ecco, se un safety tutor in autostrada misura la velocità media riducendo il rischio di incedenti – anche per chi potrebbe esserne solo vittima – é giusto che le nuove generazioni non siano travolte dalla velocità bulimica dei padri e delle madri.
Nel 2015 – l’anno della Laudato Si’ di Papa Francesco e dell’accordo di Parigi contro i cambiamenti climatici – l’ONU ha approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile definendo 17 obiettivi e 169 target verso cui andare. Quindi nel 2015 é stata fotografata una condizione – direi una “grandezza” la cui tendenza sarebbe stata insostenibile – ponendosi dei traguardi: un’altra grandezza da rendere sostenibile.
Si è misurata quindi una distanza e inevitabilmente un percorso per offrire giustizia soprattutto alla future generazioni.
Quindi, se la sostenibilità è un fine (perché in sé rappresenterebbe un mondo migliore), la misura é mezzo.
Abbiamo pensato che non sarebbero bastati i documenti, le parole e le buone intenzioni della gran parte dei Capi di Stato e di Governo che hanno sottoscritto accordi e condiviso priorità e che bisogna pensare a strumenti (mezzi) che possano guidare territori, persone, decisori pubblici ed aziende private a partecipare ad una sfida epocale.
Abbiamo pensato che all’appello accorato di Bob Kennedy all’università del Kansas nel 1968 (“il Pil non misura la felicità”) e l’importante intuizione in Italia dell’ISTAT di introdurre gli indici B.E.S. (Benessere Equo e Sostenibile) fosse necessario provare ad aggiungere qualcosa, a sperimentare ed integrare altre modalità, strumenti e dati.
Da qui é nato, in collaborazione con The Data Appeal Company, il progetto “Goal 2030” – la combinazione di dati web e satellitari con intelligenza umana ed artificiale – (link) e il protocollo d’intesa con la Rete dei Comuni Sostenibili che nel frattempo aveva avviato una sperimentazione molto interessante su un set di 101 indicatori per misurare e, quindi, accompagnare gli enti e le comunità locali ad essere protagonisti per realizzare i 17 obiettivi e i 169 target dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Con altrettanta chiarezza é giusto dire che non si tratta di indici e misure “convenzionali” ma, senza dubbio, di una sperimentazione e di un percorso di innovazione che da una parte saranno migliorabili con la partecipazione e con il confronto e dall’altra rappresenteranno comunque un valido, originale e concreto cruscotto per i decisori pubblici e privati, e per i cittadini una possibile mappa per giudicare, e quindi scegliere, i governanti e un consumo consapevole che dia giustizia alle future generazioni. E alla vigilia di importati programmi di investimenti grazie alle risorse messe a disposizione dalla UE, questo percorso potrebbe misurare insieme alla sostenibilità la qualità della democrazia rafforzando la cittadinanza attiva.
Credits. Immagine di copertina di Arek Socha da Pixabay