Problemi di asimmetria distributiva tra le righe del PNRR che ci chiedono altre e nuove ambizioni
di Paolo Pileri
Tutti gli occhi sono puntati sul PNRR. È comprensibile: da lui dipende un bel pezzo di futuro. Con quel piano si depositano a terra una gran quantità di interventi che hanno come innesco il Green Deal europeo che è ben più antico (dicembre 2019) della pandemia che pensiamo essere il motivo del PNRR. Ricordiamo questo ‘dettaglio’ perché ci aiuta a uscire dalle spire della solita urgenza del fare qualunque cosa in qualunque modo piuttosto che niente, che ha prodotto le peggio cose nel passato.
La pandemia ha sicuramente condizionato le speranze del Green Deal ma le intenzioni di una transizione ecologica erano già state definite. Infatti, il documento fondativo del Green Deal (COM(2019)640final) vuole riformulare su nuove basi l’impegno della Commissione ad affrontare i problemi legati al clima e all’ambiente (p. 2).
‘Riformulare’ è un termine di responsabilità, forte e preciso, che invita a pensare alla necessità di riscrivere tutto da capo, visto che quanto fatto fino a oggi non è più in grado di disegnare un futuro all’altezza delle prossime generazioni. Tra i pilastri del Green Deal ricordiamo oltre alla tutela della biodiversità, all’economia circolare (con le tanto amate iniezioni digitali) si dice con chiarezza che la transizione deve essere giusta ovvero non generare disuguaglianze, non dilatare i divari già esistenti e, aggiungo, non escludere, di fatto, qualcuno dalla raccolta dei benefici e non produrre asimmetrie nella distribuzione dei vantaggi ma, soprattutto, asimmetrie nel complicato equilibrio tra vantaggi prodotti e svantaggi subiti. È su queste ultime questioni che vorrei posare l’attenzione, perché anche uno strumento potenzialmente munifico come il PNRR potrebbe traballare in quanto a distribuzione dei benefici, vuoi non accorciando le distanze tra quanti sono più indietro e quanti avanti, vuoi condannando ancora alcuni a subire gli impatti per consentire ad altri di raccogliere i vantaggi.
Leggendo le varie misure del PNRR, mi sono chiesto quali valutazioni siano state fatte al fine di scongiurare l’innesco di asimmetrie di questo e di altri tipi. Ammesso che una nuova strada o una nuova ferrovia sia necessaria in un dato territorio e non sussistano alternative modali o di efficientamento di quanto esiste già, la realizzazione di opere così impattanti e discriminatorie (nel senso che depositano vantaggi soprattutto nelle aree di fermata o nei nodi di ingresso/uscita) distribuisce uniformemente benefici e impatti? Sappiamo che in passato alcune aree marginali del Paese si sono trovate nella spiacevole condizione subalterna di dover far spazio a cantieri enormi per opere enormi e ad alto impatto che non avranno mai ricadute positive in quei territori (vedi la Val Susa per l’alta Velocità, vedi la zona di Melendugno per il TAP, il Gasdotto Trans-Adriatico, per citare due tra le più recenti e contestate opere che hanno lasciato sulle spalle dei piccoli enormi impatti) o ne danno in esigua parte o lasceranno parecchi rifiuti e danni (vedi i tanti e vari impianti energetici, le cave, le miniere, le discariche…).
L’esigenza (o supposta esigenza) di qualcuno è danno certo ed esteso per altri? Oltre al fatto che le grandi città, produttrici di scorie e rifiuti in gran quantità e sempre più affamate di risorse ed energia, questi impatti non li subiscono mai e incassano solo vantaggi su vantaggi aumentando la loro attrattività e varie voci della loro rendita.
Si tratta di ragionevoli dubbi che nascono dalla lettura e rilettura di alcuni investimenti proposti dal PNRR come, ad esempio, i circa venticinque miliardi di investimenti riservati alla rete ferroviaria (Missione 3; p. 154) di cui una parte per ‘alta velocità’.
La domanda allora è; in quale modo i territori appenninici, ancor più quelli del Sud, riceveranno benefici ben distribuiti senza subire forti impatti ambientali e sociali? Sappiamo che il rafforzamento/realizzazione della AV Napoli-Bari o Palermo-Messina-Catania o il potenziamento delle Orte-Falconara o Roma-Pescara o Taranto-Battipaglia o l’estensione della AV fino a Reggio Calabria sono opere che avranno un forte impatto ambientale: consumi di suolo, nuove cave ‘di prestito’, aree agricole fatte a pezzi, rumore, nuove strade, biodiversità erosa, disboscamenti massicci, depositi di terre di scavo, rifiuti, nuove linee elettriche, tralicci, pali e centraline e via di questo passo che sfasciano equilibri e depositano degrado. Le fasi di cantiere moltiplicano gli impatti. Chi subirà tutto questo? A chi andranno i benefici? Questo bilancio si conosce? È stato calcolato? Sarà calcolato prima di avviare le opere o la fretta di fare non lo consentirà e come andrà andrà? C’è un tema di simmetria distributiva territoriale tra costi e benefici che non vedo affrontato nel PNRR e che potrebbe riservare pessime sorprese. Il richiamo imperioso alla ‘semplificazione’ delle valutazioni ambientali e dei permessi con cui si annunciano i lavori aggiungono preoccupazioni a preoccupazioni.
Prendiamo un altro esempio, anch’esso a rischio di una possibile asimmetria nella distribuzione dei vantaggi: la proposta di parco agrisolare (Missione 2C1, investimento 2.2: 1,5 miliardi). La misura consiste nell’utilizzo di tetti di edifici ad uso produttivo nei settori agricolo, zootecnico e agroindustriale per la produzione di energia rinnovabile (p. 122) su 4,3 milioni di mq per una potenza di 0,43 GW. L’idea è teoricamente buona, ma quando la mettiamo a terra i dubbi sulla buona distribuzione dei vantaggi si mostrano. Ad esempio, nelle aree interne e appenniniche molti edifici rurali sono piccoli e antichi con tetti in coppo meravigliosi che caratterizzano il paesaggio. Lo sanno bene quelli che si occupano di storytelling turistico. Inoltre, molti di quegli edifici agricoli potrebbero essere vincolati per i loro indiscussi pregi artistico e paesaggistico. Al contrario i grandi capannoni agricoli di pianura sono più grandi, brutti e non vincolati. Dove potranno e preferiranno andare gli operatori che proporranno impianti solari? Gli operatori del ‘solare’ si sono già attrezzati e stanno cercando superfici sui tetti di almeno 30.000 mq, meglio se piane. Questo potrebbe lasciar pensare che le risorse del PNRR, teoricamente accessibili a tutti, non saranno depositate di fatto su tutti e men che meno in modo bilanciato tra aree di versante e aree di pianura e, quindi, le aree appenniniche potrebbero essere di fatto escluse (forse è pure meglio, perché la bellezza vale ben più del business…ma rimane che non ci sono altrettante misure a tutela della bellezza appenninica, purtroppo). Una cosa analoga potremmo immaginarla per le altre misure energetiche che mirano a piazzare a terra oltre 32 GW (un’enormità preoccupante). Le aree di versante appenninico non solo sono meno appetibili di quelle di pianura, ma se venissero solarizzate sarebbe un enorme danno di paesaggio, di immagine, di turismo e di produzione agricola in un contesto fragilissimo dove la dimensione aziendale è più piccola e debole che in pianura.
Allo stesso modo, altre misure nascondono potenziali di disuguaglianza geografica da non sottovalutare. Persino le misure di incentivazione alle ristrutturazioni edilizie (i famosi bonus e superbonus 110%) non è affatto detto che ricadano in ugual misura nei centri come nelle aree interne. In queste ultime tutti sappiamo bene che sono più sofferenti le abilità tecniche dei professionisti, come pure quelle degli uffici amministrativi dei comuni e quelle delle imprese edili, più piccole e meno aggiornate rispetto alle cugine che lavorano nelle grandi aree metropolitane. Sebbene bonus e superbonus sembrino alla portata di tutti, nei fatti anche questi incentivi potrebbero ricadere più in alcune aree del paese che in altre.
Si potrebbe andare avanti con altri esempi tratti dal PNRR, ma la morale non cambierebbe. Al di là del merito e dell’utilità delle singole opere proposte, che non sto discutendo qui (anche se nutro non poche perplessità su molte), la questione che voglio porre è relativa alle vulnerabilità distributive del PNRR che non si sanano solo annunciando una quota finanziaria certa per il Sud (cosa in via teorica condivisibile), perché oggi i fenomeni di contrapposizione tra aree marginali o fragili o interne e aree centrali è qualcosa di più profondo e complesso.
Non possiamo permetterci di aumentare i divari tra aree interne (e gli Appennini lo sono in gran parte) e aree centrali, men che meno al Sud. Non possiamo rischiare di scaricare sulle prime la più parte dei costi e concentrare sulle seconde l’incasso dei benefici. E questo bilancio di garanzia andrebbe dichiarato con chiarezza subito. La presenza di un Sud nel Sud (o anche di un Sud nel Nord o nel Centro) ovvero di aree interne e fragili dentro un sud già fragile di suo, suggerirebbe di adottare altre politiche e visioni o, quanto meno, di attrezzarsi (per tempo) con una serie cautele che non vediamo ora nel PNRR. Ad esempio, se ci si dotasse fin da ora di un osservatorio rigoroso, pubblico e indipendente che, cammin facendo, registrasse le asimmetrie geografiche e le distorsioni nell’attuazione del PNRR, questo potrebbe aiutare a tenere in luce il problema e magari a correggere il tiro mitigando le asimmetrie che abbiamo citato.
Un osservatorio pubblico in grado anche di accompagnare le fasi realizzative. Certo, questo significa investire nella regia pubblica e tornare a dargli dignità e ruolo che la mortificazione degli ultimi decenni ha affossato e svilito assieme alla cantilena delle privatizzazioni che pareva risolvessero i nostri guai solo nominandole. Non dimentichiamoci che la transizione deve trasformare quel che di ingiusto c’è nella società europea in una società più giusta e prospera ovunque e non solo in qualche frazione del suo territorio che poi, guarda caso, corrisponde sempre e solo alle città.
Sarebbe una beffa se alla fine di questi sei anni ci ritrovassimo con qualche opera in più al Sud, ma ancora con più disuguaglianza geografica in mano e meno transizione ecologica per tutti. Più divari e meno ricuciture. Più ecologia in qualche circoscritta area del Paese e molta meno ecologia ovunque. Questo innescherebbe nuovi disagi sociali e flussi migratori interni aggravando spopolamenti e vitalità di aree delicate e in bilico da sempre, come quelle montane, vuoi appenniniche vuoi alpine. Sono solo dubbi? Speriamo, ma qualcuno ci dia conforto e garanzie.