Il viaggio in “Pianura” di Belpoliti
Appena dopo essere approdato dall’Appennino a Milano, due sensazioni continuavano a perseguitarmi: una era l’assenza di vento (un’assenza inconcepibile per me, che venivo da quello che gli esperti chiamano il “triangolo eolico”, circoscritto più o meno alle provincie di Potenza, Avellino e Foggia), l’altra era la mancanza di quelle che io all’epoca chiamavo le “impalcature del cielo”.
Le montagne reggono il cielo, sono come dei ponteggi che lo sostengono in alto, sopra le nostre teste. Non importa che siano alte e appuntite come le Alpi, anche gli Appennini svolgono lo stesso compito. Com’è possibile – mi chiedevo – che qui il cielo non abbia bisogno di puntelli?
La domanda non presupponeva risposte certe perché a Milano solo di rado e in tramonti peraltro spettacolari si arriva a vedere la linea frastagliata delle cime alpine che incorona la Lombardia e sconfina verso il Monte Rosa.
Non conoscevo ancora la scrittura di Sebastiano Vassalli, che più tardi, negli anni, sarebbe arrivato a definire la pianura una lavagna su cui il tempo si diverte a scrivere e a cancellare le sue tracce. Oppure avrebbe usato anche il paragone con il mare: la pianura è un mare dove non esistono punti di riferimento, solo un indistinto sentimento di non finito e di non luogo.
L’Appennino che mi ero lasciato alle spalle era un labirinto di strade contorte e di paesi irregolarmente aggrappati ai rilievi, ma almeno possedeva qualche punto di riferimento naturale. Era un’epopea di linee, epica del caos.
La pianura invece mi si presentava in forma di cronaca quotidiana (è questa la cifra che Gianni Celati individua in Narratori delle pianure), il tempo non aveva la stessa profondità e nemmeno lo stesso respiro. Si spalancava come un differente labirinto, ma sempre labirinto rimaneva nella mia immaginazione o, provando a dare qualche classificazione, mare, lavagna, deserto di nebbia, addirittura cielo riflesso.
Da qui nasce quel bisogno di misurazione, che è una specie di ossessione in cui finiscono quasi tutti gli abitanti di questi luoghi: misurare per avere certezze, calcolare per scongiurare il pericolo di essere dentro un non-luogo. Lo avevano capito sin dal tempo dei Romani che occuparono queste terre e per dare a esse un ordine – per obbedire al loro rigido disciplinare di conquistatori e di civilizzatori – trovarono il sistema della centuriazione: una mappa di linee perpendicolari che formano il grande reticolo di campi, di colture, di alberi, il cui inizio è un passo appena fuori Milano e si estende ininterrottamente fino all’Adriatico.
Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, lo chiamò “campagne matematiche”. E qualcosa di vero e di esatto l’impatto visivo lo trasmette di sicuro.
Dall’origine delle centuriazioni, dalla loro inevitabile necessità, prende le mosse Pianura di Marco Belpoliti (Einaudi, p. 286, euro 19,50), una magnifica narrazione di paesaggio e del suo significato antropologico, una processione di memorie addizionate, erudita ma non leziosa, colta eppure leggera, che riproduce i segni di una tradizione antichissima, come il racconto geografico che appartenne all’epoca di Strabone, di Varrone e che assai più vicino a noi Claudio Magris e Gianni Celati hanno restituito a dignità letteraria.
Dire che questo libro fosse atteso sarebbe troppo banale perché il libro non è soltanto il riepilogo di un lunghissimo viaggio inseguendo il Po, tappa dopo tappa, passando dalle città di Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara, Ravenna: un viaggio nei particolari del tempo, nei particolari della Storia, che qui, in pianura, non respira con i polmoni dell’epica, ma con l’usura opaca del quotidiano, con quel sentire di non essere mai nel punto esatto del mondo, ma sempre al limite di un altrove, sul ciglio di un canale o al vertice di una frontiera orizzontale da cui parte il filare di pioppi, ma sempre nell’incertezza che il posto migliore dove fermarsi sia un chilometro più avanti, questione di incroci sbiaditi o di sentieri imbucati nella direzione errata.
È questa la sensazione che si respira nel libro di Belpoliti: soste narrative dietro a un fregio del Duomo di Modena o nei dintorni di pispiò (uno di quegli strani aggeggi concavi che venivano sistemati agli spigoli dei palazzi) e poi ripartenze verso altre soste, altre allucinazioni che l’aria ferma e senza vento genera e moltiplica.
Probabilmente è questo il baratro che obbliga a circondarsi di certezze volumetriche o topografica, come la discussione che sorse intorno alla pianta a losanga di Reggio Emilia.
Forse sta qui il mistero delle genti nate in pianura, nella follia che nasce dall’eccessiva cura nell’ordine, nella furia allucinata che cattura tanto Antonio Ligabue quanto Federico Fellini, nell’allargare le braccia alle risorse del mondo onirico come reazione alla tortura della linea retta o dell’horror vacui, che la nebbia tenta di riempire con la sua invisibile ovatta. Sarà questa la ragione per cui in pianura nascono fotografi come Luigi Ghirri?
È lui il fantasma che accompagna Belpoliti nel suo viaggio? Chissà. C’è un tu con cui l’autore continua a dividere pane e libri, tempo e carta, memoria e oblio, geometria e dissipazione. E forse, se dovessimo esporre una specie di fisiologia dell’immaginazione di pianura, dovremmo pensare non tanto a una formula astratta, che la pianura rifiuterebbe di accettare, impregnata com’è di umori non retorici, ma umili e basse come le terre di cui è composta, piuttosto a un paio di righe che Belpoliti dedica alla nebbia, la vera madre di questo enorme e ricco comprensorio di spazio, da cui ogni cosa sembra nascere, anche la «linea immaginaria dell’orizzonte, dove la terra e il cielo si toccano e si estendono l’uno nell’altro grazie al biancore».
Ecco, questa linea, ci dice Belpoliti, non apre e non chiude, ma esiste come un teorema, un dogma e dà una definizione: «la vaghezza dell’identità».