Sentieri e borghi. Uniti per un nuovo progetto di territorio e Appennino
di Paolo Pileri
“I borghi più belli d’Italia. Il fascino dell’Italia nascosta”. “Borghi Medievali da Visitare”. “Borghi italiani – Arte e storia – Idee di viaggio”. “Un’estate nei borghi bandiera arancione”. “Ritorno ai borghi”. “Il rilancio dei borghi”. Lo leggiamo spesso sul web e sui giornali. Il borgo antico è parte indelebile del paesaggio italiano e nell’immaginario di tutti noi è una delle espressioni canoniche assunte dalla bellezza in Italia: questo è fuori discussione e non voglio infatti parlarne. Negli ultimi anni i borghi hanno risalito la classifica dell’interesse popolare. Molte associazioni, vuoi preoccupate dell’abbandono di tanti nuclei antichi, vuoi per convinzioni turistiche, vuoi per altre ragioni, si sono impegnate a darne risalto mediatico con premi, articoli, bandiere, targhe e servizi fotografici. Nel 2017 il ministero dei beni culturali ha dedicato ai borghi d’Italia l’intero anno con manifestazioni ed eventi. Durante la pandemia covid, archistar come Mario Cucinella, Stefano Boeri o Massimiliano Fuksas hanno dichiarato con entusiasmo che nei borghi vedono il futuro (ovviamente nella versione 4.0). Il Sole24ore: “Dallo smart working la spinta a ridare nuova vita ai borghi” (24 agosto 2020).
Possiamo pensare quel che vogliamo – affermazioni azzeccate o estemporanee? –, ma sta di fatto che i borghi hanno iniziato a ricevere più attenzioni rispetto a una dozzina di anni fa. Il recente Piano di Ripresa e Resilienza del Governo Conte II, quello del Recovery Fund, ha previsto di finanziare un Piano nazionale borghi con 1 miliardo[1] targato “Turismo e cultura 4.0”. Tutto questo può essere una opportunità o l’ennesimo buco nell’acqua o addirittura una iattura se quei piccoli borghi venissero invasi da turisti-cavallette. Non devo spiegarlo qui che i nostri borghi sono fragili di natura e hanno una intimità delicata a cui basta un nonnulla per essere sfigurata.
A Montepulciano ci è mancato poco che spianassero mezza collina per farci un mega posteggio per bus turistici, dopo aver già eliminato ulivi secolari per far arrivare le auto dei turisti fin sulla soglia del borgo medioevale. Tutti noi vogliamo veder rinascere i borghi, vogliamo vederli soprattutto riabitati. È innegabile che il turismo sia una opzione. Ma è altrettanto innegabile che non possiamo depositare qualsiasi turismo dentro un luogo così fragile.
Eppure, in molti si stanno già affidando a coloro che fino a ieri i borghi manco li guardavano, presi nell’industria turistica, nella promocommercializzazione di tutto, nell’organizzare eventi e sagre, nel confezionare pacchetti, allestire siti web e campagne social inventandosi destinazioni da catalogo. Il loro sguardo sulle cose va bene per i borghi? Va bene per aree sensibili come gli Appennini? I dubbi sono tanti, ma quel che più mi preoccupa è l’ascolto. Non tanto e non solo delle genti che ancora vi abitano, ma della storia di quelle case, di quei muri, di quei portici, di quei campi e di tutta la loro fragilità. I borghi di cui parliamo non sono oggetti decontestualizzati pronti a farsi palcoscenico per esibire le ricette glamour con travestimenti medievali per attrarre turisti pagatori, facendogli magari credere che tutto quello è pure sostenibilità. I borghi sono tra le ultime perle del paesaggio italiano che abbiamo. Per molti di loro, essere stati trascurati per decenni è stata una fortuna. Pare brutto dirlo, ma è in parte così. Travolgerli con ricette da colonialisti sarebbe imperdonabile. Omologarne gli spazi ai codici architettonici della movida metropolitana, sarebbe offensivo. Eppure, sta accadendo o potrebbe accadere. Ma per fortuna ci possono venire in soccorso la storia e l’esistenza dei sentieri. Si, i sentieri: proprio loro. Trascurati dai premi, dalle bandiere e dai piani nazionali, è proprio su di loro che voglio concentrarmi ora, cercando di mostrare che sentieri e borghi sono un tutt’uno, e da questo tutt’uno possiamo immaginare una rigenerazione più coerente con lo spirito del borgo, con i principi della sostenibilità e con l’esigenza di riabitare quelle mura grazie a un’idea di turismo assolutamente diversa, ma non per questo meno promettente. Partiamo proprio dall’evidenziare lo snodo culturale sul quale poggiare l’idea di rigenerazione: borghi e sentieri sono in simbiosi. Molti borghi devono la loro fondazione e poi il loro meraviglioso e armonico sviluppo proprio all’esistenza di un sentiero, una via tracciata in epoca medioevale, magari a sua volta derivante da una traccia ancora più antica. Segnare una traccia, camminando, è stato il primo atto di fondazione del paesaggio, come ci spiega bene Francesco Careri (2006).
“È camminando che l’uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo circondava. […] il camminare si è trasformato in forma simbolica che ha permesso all’uomo di abitare il mondo. Modificando i significati dello spazio attraversato, il percorso è stato la prima azione estetica che ha penetrato i territori del caos costruendovi un nuovo ordine sul quale si è sviluppata l’architettura degli oggetti situati”
Il borgo dei borghi oggi città, Siena, deve la sua origine e la sua bellezza alla via Francigena. Chissà quanti altri borghi, tesori d’Italia, non avremmo se nessun cammino fosse stato tracciato prima di loro. Per dirla in poche parole, borghi e sentieri sono inseparabili. Tim Ingold, antropologo di fama che sulle linee ha dedicato la sua vita da ricercatore ha spiegato chiaramente la relazione simbiotica e mutualistica tra linea e luogo, distinguendola da quella di punto e connettore.
“per aver la pienezza di luogo, ogni posto deve appartenere a una o più tracce sulle quali è possibile un movimento da o verso altri posti”
Il borgo è per tutti noi un luogo e lo è pienamente anche in virtù del fatto che è immerso in linee che lo hanno da sempre unito al suo intorno e, nel caso di lunghi cammini, agli altri borghi lontani. Storia, storie, vicende urbanistiche, fortune e sfortune, avvicendamenti di casate, architetture magnificenti si spiegano attraverso quel che quei percorsi portavano o strappavano. Proporre di rinvigorire i borghi trattandoli come punti isolati, presepi illuminati per sedurre e soddisfare il turista urbano in cerca di eventi, sagre, mercatini e buone osterie sarà anche una tattica attrattiva, ma pur sempre è qualcosa che ne banalizza il loro carattere, li svilisce a destinazione commerciale e li assoggetta, come colonie, ai capricci della grande città. Offrire in quei borghi quel che il turista desidera trovare, come spesso suggeriscono i ‘maghi’ del turismo ai sindaci e ai ministri, significa concentrarsi solo sull’attrattività finalizzata alla spesa e dimenticare tutto quel che non ‘cuba soldi’. Non solo. Significa mettere indirettamente in moto un processo di s-memorizzazione delle storie popolari o, quanto meno, abituare i turisti a non considerarle parte inseparabile di quei luoghi. Invece, le relazioni che quei percorsi, avevano con altri villaggi, con boschi, campi, marine, sorgenti, hanno segnato la loro e sopravvivenza. Lungo quelle tracce gli abitanti hanno imparato come vivere la montagna, come resistere, come adattarsi ai climi sfavorevoli e alla natura aspra. Una straordinaria testimonianza di questo connubio popolare tra borgo e sentiero ce la dà Carlo Levi quando descrive la sua Gagliano e la vita di stenti, ma autentica, dei suoi abitanti attraverso la descrizione dei sentieri e di quale ruolo avevano nella vita paesana.
“… il paese è tutto cinto di burroni, e ci se ne esce soltanto, oltre che dalla parte del cimitero, per due soli sentieri. L’uno è quello, in basso, che correndo sulla cresta delle Forre, a saliscendi, conduce da Gagliano a Gaglianello, e su questo avrei potuto andare fino al timone della Madonna degli Angeli, al luogo dove il diavolo era apparso al vecchio Becchino, poco lontano dalle ultime case del paese. Di qui si stacca, sulla destra, un sentieruolo largo pochi palmi, che scende a zig zag ripidissimi, nel fondo del precipizio, duecento metri più in basso: Questo è il passaggio obbligato e pericoloso che ogni giorno quasi tutti i contadini scendono, con L’asino e la capra, per raggiungere i loro campi là in basso, verso la Valle dell’Agri, e risalgono la sera, con i loro carichi d’erbe e di legna, come dei dannati”.
Senza il racconto di quei sentieri, non capiremmo il borgo di Gagliano e la sua società. E Gagliano non sarebbe esistito in “Cristo si è fermato a Eboli”. Possiamo, noi oggi, separare il borgo dalle sue tracce? Con quale diritto? Io sono convinto che sbaglieremmo. Nei casi dei lunghi cammini, quelli che attraversavano centinaia di borghi, come fa il filo di una collana che tiene assieme centinaia di perle, il sentiero faceva da vero e proprio conduttore: di notizie, di genti, di scambi, di tecniche artigianali, di cultura, di saperi. Fintanto che quei fili hanno funzionato e non sono stati dimenticati, i borghi, in qualche modo, si sono sostenuti tra loro e questo a concorso a salvarli, a proteggerli, a dare loro un sistema di riferimento entro cui abitare il borgo assieme ai borghi della linea. Quei i fili lunghi hanno garantito il progresso e la crescita di quei villaggi. Separare l’idea di rigenerare un borgo dall’idea di rigenerare l’antica linea che la storia ha unito per secoli, significa andare incontro a una prospettiva ribassista che, saccentemente, è convinta di non aver più bisogno delle interpretazioni e dei valori che quelle linee lente hanno inciso su di loro. La fame di attrattività turistica e le pressioni delle rendite locali possono anche far piovere milioni sui borghi, ma ci renderanno più egoisti e ne impoveriranno lo spirito autentico. Borgo e traccia sono entrambi parte del Genius Loci del nostro paesaggio. E ha poca importanza se si tratta di vie storiche evenemenziali come la Francigena o l’Appia o popolari come una via del sale o un semplice percorso per i campi. Pier Paolo Pasolini, nel memorabile cortometraggio del 1974, “La forma della città”, ci fornisce delle ragioni incontrovertibili del perché dobbiamo occuparci con pari slancio ed energia, tanto dell’umile sentiero popolare, quanto della famosa architettura medioevale. Ce lo spiega mostrandoci le mura del borgo di Orte. Un esempio di Genius Loci dove l’antica sapienza architettonica era stata capace di adattarsi al contesto aspro della rocca ponendosi quasi in ‘naturale’ continuazione con essa. Non così accadde negli anni ‘70, e ancor oggi, dove episodi di sciatteria urbanistica si sono impossessati delle città, ferendole di bruttezza e distruggendo quanto di buono fatto nei secoli e gettando noi nello spaesamento. Ma il poeta non si ferma a questa denuncia e prosegue la sua lezione scegliendo di camminare sul sentiero che sale fino alle mura di Orte. Ed è qui che ci spiega come la magnificenza delle mura e l’umile sentiero che sale hanno la medesima dignità e meritano pari attenzione.
“Questa strada per cui camminiamo, questo selciato sconnesso ed antico, non è niente, non è quasi niente, è un’umile cosa: non si può neppure confrontare con certe opere d’arte di autore, stupende, della tradizione italiana. Eppure, io penso che questa stradina da niente, così umile, sia da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difende un’opera d’arte di un grande autore. Esattamente come si deve difendere il patrimonio della poesia popolare anonima, come la poesia d’autore, come una poesia di Dante di Petrarca, eccetera, eccetera.[…] È questo che non è sentito, perché con chiunque tu parli, è evidentemente d’accordo con te, nel dover difendere un’opera d’arte di un autore, un monumento, una chiesa, una facciata di una chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico è ormai assodato, ma nessuno si rende conto che si deve difendere questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare”.
Ogni ulteriore commento è superfluo. Tutto il ragionamento che abbiamo fatto, pur in poche righe, è per spingere l’ambizione al recupero dei nostri borghi oltre lo sguardo ristretto e un po’ egoista dei loro confini. Cedere alla tentazione del marketing territoriale che punta sui borghi lasciando indietro i sentieri, rischia di non fare un buon servizio al futuro, soprattutto se vogliamo che i cittadini imparino chi sono i borghi. Ricordiamoci sempre che ogni recupero ha una funzione pedagogica che non deve tradire i valori delle storie, della Storia e del senso di quelle comunità. La storia ci ha consegnato borghi e sentieri assieme perché entrambi, e assieme, siano recuperati. E se i sentieri sono cammini di centinaia di chilometri, le ragioni del recupero devono adattarsi alla scala vasta di quei chilometri, perché quella traccia, pur in modi diversi, ha dato origine a tutti quei borghi legandoli assieme in un tutt’uno che ora non vediamo più, ma esiste ancora. Chi siamo noi per separare quel che la storia ha tenuto unito per secoli? E allora cambiano le premesse che informano il modo di pianificare la rigenerazione dei borghi e di progettare un possibile turismo lento che, tra l’altro, sarebbe meglio chiamare viaggio lento, spostando il baricentro più sui valori di esperienza, libertà e lentezza che di commercio, servizi e prestazioni. Senza sentieri e inseguendo un modello turistico profittevole e standardizzato, i borghi finiscono per diventare dei mini-centri commerciali per turisti stagionali a caccia di selfie od occasioni di visita di una umanità morta e rimpiazzata dalle pretese del codice metropolitano, rivisto e riattato all’occorrenza con qualche spruzzata di profumo medioevale. Sarebbe meglio parlare di progetto di territorio piuttosto che di un recupero di un borgo come se fosse una particella isolata. Il Genius Loci che attraversa la nostra storia di Paese e che negli Appennini si è depositata e ha sviluppato soluzioni straordinarie non può essere tradito da ricette profittevoli che non c’entrano nulla e snaturerebbero la bellezza accumulata in secoli. Bisogna rispettare quei luoghi prima di farci qualsiasi cosa. Bisogna imparare a pensarli seguendo la Storia e le storie.
Bisogna ascoltarli e aver il coraggio di pensarli entro un filo che fa da struttura e li tiene assieme. Bisogna che mettiamo da parte le pretese del marketing turistico in salsa metropolitana e gli allegati di aggressività coloniale che ci incantano con le loro mirabolanti promesse. Non tutti i turismi sono buoni per i borghi, né per gli Appennini. E neppur tutti i turismi lenti lo sono, né sono sostenibili solo perché lenti. Si tratta di pensare prima di fare, anche se oggi va molto di moda fare e fare alla svelta. Un sentiero umile può rimettere in vita gli Appennini più di quanto pensiamo. Dipende da noi. Loro ci chiedono di non abbandonarli e di seguire il loro antico istinto alla lentezza e non il nostro presuntuoso incubo di far cassa.
Note
[1] Il piano nazionale borghi è un’idea del 2017 (anno dedicato ai Borghi d’Italia) del MIBACT che ha cercato, a più riprese, di mettere in movimento accordi (con Airbnb e ANCI, ad esempio) per spingere il turismo a guardare alla ‘destinazione’ borghi. Il documento del PNRR è consultabile in rete. Il valore 1 miliardo è stato ricavato dalla versione del 12 gennaio 2021. Vi sono altri documenti in rete. In particolare, la collezione di schede degli interventi del 29.12.2020 riporta un appostamento di 300 milioni per 120 casi.
Bibliografia
Careri F. (2006), Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi
Ingold T. (2007), Lines, A brief history, Routledge 2007.
Levi C. (1981), Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori
Pileri P. (2020), Progettare la lentezza. Linee antifragili per rigenerare l’Italia a piedi e in bici, People