Invertire lo sguardo per “Riabitare l’Italia”
C’è una grande Italia oscurata, disconosciuta e marginalizzata, ma che contribuisce attivamente al benessere collettivo. E’ l’Italia delle aree interne, delle montagne e delle colline in declino demografico, delle periferie urbane, delle comunità insediate lungo lo scheletro appenninico. E’ l’Italia che garantisce ossigeno, che assicura che le terre alte non franino a valle, che cura boschi e paesaggi, che protegge la biodiversità, che produce cibi genuini, energie rinnovabili, legname, che consente la riproduzione sociale dei ceti urbani. Un’Italia generosa, per lungo tempo senza politiche e senza ristori. Un’Italia che è stata intenzionalmente abbandonata, perché considerata marginale, arcaica, improduttiva, refrattaria al futuro.
Gli enormi costi economici, sociali e ambientali di questo abbandono sono davanti ai nostri occhi. Città inquinate, alluvioni e frane rovinose, degrado ambientale, desertificazione antropica e produttiva di ampi territori, disuguaglianze crescenti di cittadinanza e di opportunità tra luoghi “centrali” e luoghi marginalizzati, diffusione della povertà educativa.
La pandemia da Covid-19 ha mostrato con drammatica evidenza il fallimento delle idee dominanti dell’eccellenza urbana, dell’innovazione tecnologica puntiforme, dei locomotori che trainano il resto, delle politiche pubbliche “cieche ai luoghi”. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle l’insuccesso di politiche sanitarie centrate su ospedali all’avanguardia a scapito di adeguati presidi sanitari territoriali diffusi, dell’innovazione rarefatta senza innovazioni “leggere” e “pazienti” che si producono tacitamente nei luoghi, di decisioni pubbliche centrali senza cooperazione delle istituzioni decentrate. Le disuguaglianze e le fratture sociali, il degrado ambientale e materiale, si curano con la coesione, con la complementarità, con la valorizzazione della varietà, con politiche basate sul protagonismo, le conoscenze e i bisogni delle comunità locali.
Per tali ragioni, per Riabitare l’Italia bisogna prioritariamente “invertire lo sguardo”. Cambiare la quota della rappresentazione, osservare il Paese dalla montagna, dai paesi polverizzati, dalle periferie, dall’Appennino.
Non c’è futuro per le aree interne italiane senza un cambiamento degli sguardi e della postura narrativa, se non si considerano contemporaneamente partenza e restanza, fuga e nostalgia, abbandoni e ritorni, de e ri-contadinizzazione, vecchie e nuove produzioni.
Raccontano sempre meno le immagini dicotomiche: la pianura come luogo della ricchezza e del dinamismo e l’Appennino come luogo della povertà e della persistenza; l’agricoltura intensiva a scala industriale come il sentiero unico per l’efficienza e le produzioni di nicchia come pratiche subottimali e residuali; la velocità del quotidiano urbano come icona di modernità e innovazione e la bassa intensità della quotidianità rurale come un segno di arretratezza.
Non guardare il Paese con gli occhi di chi è sceso a valle o si è trasferito in città, di chi alimenta lo storytelling della metrofilia, di coloro che pensano che l’agglomerazione urbana sia l’unico paesaggio antropologico, degli osservatori che sorvolano i luoghi senza mai atterrarci. Di chi continua a considerare le metropoli come motori di tutto il movimento: una tardiva illusione fordista di città industriale che performa il resto, che informa di sé relazioni sociali, sentimenti e aspettative, ritmi urbani, poteri economici e politici, dentro e fuori i propri confini. Una narrativa senza dubbio efficace per catturare visibilità e interessi, per dettare l’agenda delle politiche pubbliche, e per trasferire più risorse a chi già ne ha di più, ma molto meno efficace in termini di risultati complessivi, dal momento che l’Italia è cresciuta pochissimo nell’ultimo quarto di secolo, tanto rispetto al passato quanto agli altri paesi europei.
L’Italia è il paese del molteplice, del policentrismo territoriale, antropologico, culturale. L’eterogeneità dei luoghi – fisici, mentali, simbolici – è il “vantaggio competitivo” del Belpaese: il fascino unico di tante Italie in ogni luogo. La rappresentazione stereotipata disconosce questo carattere originario della nostra penisola, trascura la forza attrattiva del mosaico, sottovaluta le complementarità tra le parti: la sicurezza della pianura dipende dalla presenza umana nelle colline e nelle montagne, la salubrità delle città dalla qualità dei boschi sovrastanti. Mondi diversi ma interconnessi, anche per questo squilibri profondi di una parte abbassano la sostenibilità sociale e economica dell’intero sistema. Lo spopolamento e l’abbandono non fanno male soltanto alle aree interne bensì al Paese nel suo insieme. Il troppo vuoto di un’area si traduce spesso nel troppo pieno di un’altra, la rarefazione si associa alla congestione, le perdite di alcuni non sempre si traducono in guadagni per altri. D’altro canto, la geografia e le direzionalità dei circuiti umani e economici non sono immutabili, cristallizzati nel tempo. Al contrario, co-evolvono sistematicamente, senza determinismo e sentieri predefiniti.
C’è bisogno di guardare l’Italia tutta, a partire dai luoghi marginalizzati, da cose e uomini e donne che più di tutti hanno sofferto la solitudine della dimenticanza e della svalorizzazione. Pensare all’Appennino come cura delle città malate di smog, di penuria d’acqua, di rischi d’inondazione.
Si avverte negli ultimi tempi una nuova attenzione, talvolta retorica e un po’ naïf, verso i paesi e le città di piccole dimensioni, per progetti di vita più densi di relazioni umane, per economie meno ossessionate dai profitti di breve periodo, più circolari e meno dissipative, per innovatori e innovazioni che alimentano benessere e qualità della convivenza ma anche partecipazione diffusa alle scelte pubbliche.
Osservare il Paese dal margine non vuol dire disconoscere l’importanza delle città e degli agglomerati metropolitani e del loro vitalismo creativo e innovativo nel campo sociale, produttivo e civile. Non si tratta di rinunciare alla città, o vagheggiare poco credibili capovolgimenti repentini: i fattori di agglomerazione, che favoriscono città e luoghi densamente popolati, sono ancora importanti nella società e nell’economia contemporanee. Dall’altro, non si possono considerare i paesi come meri rifugi temporanei per salvarsi dalla congestione e dell’invivibilità urbana; e non si tratta neppure di far diventare la campagna più cittadina e le città più rurali, o di far “adottare” i paesi delle aree interne dalle città metropolitane, come se il problema fosse semplicemente quello di riprodurre in ogni luogo regole e standard uniformi. Piuttosto, bisognerebbe guardare alle connessioni, palesi e nascoste, tra città e campagna, tra città e montagna (alla “metromontana”), tra “pieni” e “vuoti” per scovare e praticare reciprocità equilibrate, non asimmetriche, reciprocamente vantaggiose.
Si tratta insomma di prendere atto dell’esaurimento di certe supposte linearità dei processi di trasformazione: dalla città al resto; dal grande al piccolo; dal centro al margine. Significa invece guardare al “tutto” e alla interdipendenza delle parti da altri punti di osservazione: dai paesi in spopolamento alle città intasate, dalle montagne abbandonate al mare e alle pianure sottostanti, dai boschi alle aree industriali inquinate, dai reperti archeologici “minori” alle grandi esposizioni, dai treni regionali in decremento all’alta velocità. Ma anche e soprattutto dai sindaci dei paesi più remoti e fragili ai Commissari europei, dai montanari ai tour operator che vedono solo il turismo marino, dai contadini d’altura che manutengono cotica erbosa e muretti a secco agli imprenditori chiamati ad erigere argini sempre più alti e invasivi per contenere le esondazioni dei fiumi, dall’archeologo “minuto” all’organizzatore di blockbuster, dai lavoratori pendolari dispersi ai viaggiatori nei treni no-stop Milano-Roma.
Credits foto di copertina: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Irpinia_Riflessa.jpg – Giuseppe Famiglietti, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons . foto modificata.