Sul fiume
Racconto di Carlo Grande
“Scendo al fiume – dico – faccio quattro passi”. Il fiume che è confine, lavacro d’inquietudini, che rimescola il sangue e lo rigenera, che mi è frontiera in questa parte di città.
“Quattro passi”, “attività motoria”: con quanta stanchezza lo dico a lei, che è distante, al telefono, immersa nel lavoro.
E io qui, davanti alla corrente, il viso si fa acqua e trema, intorno mille strade interrotte della metropoli. Posso arrivare fin qui, uscito di casa. Davanti al Po che scorre, pochi passi da centellinare mattina e sera, duecento metri fino al silenzio, alla pausa di parole, tante, troppe, vane parole.
La luce piove dalla collina, ragazzi sulla riva; miei simili, a ciondolare in bicicletta e di corsa, al guinzaglio di un cane. Un bambino chiama e le anitre arrivano, in flottiglia, a pelo d’acqua, sembrano l’unica cosa viva di una città che è in guerra.
Poi se ne vanno, volando nel verso della corrente, scivola fino al sale del mare.
Anitre d’inverno, sull’acqua, freccia d’autunno. Hai visto, giovane Holden Caulfield?
Garibaldi, al fondo di via dei Mille, bilancia il peso dal piede sinistro al destro, sul piedistallo alto davanti al fiume. Davanti al monte dei Cappuccini, dove un tempo, tra cupi boschi della collina, viveva un eremita. Boschi dell’Appennino, delle Alpi lontane. Vago senza bordone o lanterna, tra parole che non bastano più, nella calma apparente delle povere bestie al guinzaglio.
Un tempo, al di là della frontiera del tempo, oltre questa corrente oggi invalicabile, arrivavo fin qui dalla periferia. L’acqua scorreva luccicante, come lo sguardo di Pavese, di Cesare non ancora perduto nella pioggia, ritrovato nel sole: “In quell’estate andavo in Po, un’ora o due, al mattino. Mi piaceva sudare al remo e poi cacciarmi nell’acqua fredda, ancora buia, che entra negli occhi e li lava… Si risaliva a forza di remo la corrente sotto i ponti, lungo le rive murate, e si sbucava tra gli argini e le piante, sotto il fianco della collina. La collina sovrastante era bella al ritorno, fumando la prima pipa, e per quanto fosse giugno, a quell’ora la velava ancora un’umidità, un fiato fresco di radici. Fu sulle tavole di quella barca che presi gusto all’aria aperta e capii che il piacere dell’acqua e della terra continua di là dall’infanzia, di là da un orto e da un frutteto. Tutta la vita, pensavo in quei mattini, è come un gioco sotto il sole”.
La domenica qui si riempie di famiglie, girano come mosconi. Ho orrore delle oziose domeniche, non ho scarpe per attraversarle, non so tenere a bada quei pomeriggi infiniti.
Il fiume placido diventa la Senna di Maupassant, carica di lordure; diventa torbido, amazzonico, il Paranà di Conti, che è torvo, astuto e crudele. Chi osserva l’acqua ha “occhi da pesce moribondo”, sospeso sulle acque. Vecchi, distanti e solitari. Indifferenti. Il re di Excalibur che non riesce a vivere e non riesce a morire.
Non usciranno spade, dall’acqua. Solo ricordi di montagne, acqua d’infanzia: il rivo dietro alla cascina della zia Rosa, in Val di Susa, il sentiero che usciva dall’aia, pochi passi e la bealera gonfia, bordata di alberi, ultimo confine fra la montagna e bosco sudante.
La Sacra di San Michele lontana, la sera, nel buio dello stradone. Balbettìo di un lumino, in alto, appeso alla roccia. Sorgente di stupore: “Sono i monaci che pregano” rassicurava la nonna.
Acqua alle sorgenti del Tanaro, un pugno di ragazzi in tenda lungo il torrente: acqua della giovinezza, fra i castagni delle Alpi.
Tornerò a lanciar sassi nel fiume, in una montagna calma e abbandonata, in un villaggio nascosto da una serpentina di curve, dove un dio pagano, nella fertile noia, sale sul campanile a battere il tempo.
Qui, sulla riva, è già libertà e militanza, è il mio posto di combattimento prima di tornare alla scrivania, a levigare vocaboli come ciottoli di fiume, ad aspettare che il fiume sia specchio di montagne, letto di sogni silvestri.
Tornerò sempre al fiume, ai margini, in periferia, al centro di me stesso.
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Credits foto: Carlo Grande