Le osservazioni naturalistiche in Appennino di Giustino Fortunato
Tra questione meridionale, alpinismo e botanica applicata.
di Gianni Palumbo
Una delle prime sedi del CAI in Italia, una sezione che potremmo definire storica, fu quella di Napoli, attiva fin dal 1871. E non è un caso se la sede di fondazione fu il laboratorio di botanica di Nicolantonio Pedicino, nato sull’Appennino, a San Giuliano del Sannio, in provincia di Campobasso. Il laboratorio aveva sede in via Tarsia, dove era collocata anche la “Reale Società di Incoraggiamento alle Scienze Naturali”, poi “Regal Istituto di Incoraggiamento alle Scienze Naturali”, nata con le riforme napoleoniche del decennio francese a inizio ‘800, che aveva il compito di promuovere la ricerca applicata e quella pura al fine di favorire un nuovo slancio economico nel Mezzogiorno d’Italia.
In quel laboratorio di un botanico, un eminente scienziato del XIX secolo, si erano recati, tra gli altri, il barone Vincenzo Cesati, titolare della cattedra di botanica all’Università Federico II di Napoli, il lucano Giuseppe Camillo Giordano, di Pomarico, e a sua volta botanico oltre a illustri umanisti tra i quali si aggiungerà quasi subito, nel 1872, Giustino Fortunato di Rionero in Vulture e, più tardi, anche Benedetto Croce l’illustre filosofo abruzzese di nascita, napoletano d’adozione.
Come scriverà lo stesso Fortunato, «L’acceso desiderio di veder chiaro, appena uscito dall’Università, in tale primo erimma che m’era balenato alla mente, quello, cioè, dell’inferiorità o non del Mezzogiorno, mi sospinsero, anzi che allo studio del codice, alle investigazioni della storia; sempre più rattristato dalle prove che ne attingevo nel paragonare le alterne sorti delle due Italie, le quali spesse volte mi suscitavan dentro l’amaro interrogativo: Perché? Or avvenne che un giorno che, saputo della fondazione in Napoli d’una sezione del Club Alpino Italiano […], e corso a iscrivermi socio, lassù a Tarsia, nel laboratorio di botanica del professore Pedicino, scienziato e uomo più singolare che raro, poche parole per lui, e del giovane suo assistente Antonio Jatta, con cui presi di fraterna amicizia, bastarono per conquistarmi all’alpinismo, rimasto la passione della mia vita: una passione cui debbo, nonché la salute e la forza di resistenza a tutto il trentennio di elettorato, il proposito, mantenuto per più anni, di percorrere lungo l’Appennino dagli Abruzzi alle Calabrie, pedestremente, tutta intera la terra meridionale. La quale, se non durai fatica a intendere quanto poco fosse amica dell’uomo, sentii perciò appunto il dovere, misteriosa e muta com’è, perdutamente amare».
L’impalcatura del pensiero politico di Fortunato, sviluppatosi in un clima di grande fervore culturale, politico ma anche sociale e scientifico, regge sulla convinzione che sono il sistema geografico, l’ambiente e il clima del Sud d’Italia ad avere una profonda influenza nei confronti delle popolazioni meridionali e in particolare quelle che abitano gli appennini.
Ed è proprio sull’Appennino che Giustino Fortunato forgia i propri convincimenti politici, e per interrogarsi continuamente inizia una serie di peregrinazioni intense che lo porteranno, nel corso degli anni, a percorrere in lungo e in largo l’appennino meridionale, dal Gran Sasso all’Aspromonte (da ricordare, tra le altre, le escursioni effettuate tra il 1877 e il 1878, raccolte in quattro straordinarie relazioni a cui fu dato il nome di “Ricordi di Alpinismo” e che fanno riferimento a escursioni sui monti Lattari, sul Taburno, sul Terminio e sul Partenio, pubblicate sui bollettini CAI e poi riediti).
L’impeto che spinge il grande meridionalista all’esplorazione dell’Appennino è di natura scientifica prima ancora che sociologica e politica. I suoi interessi per la botanica, infatti, lo designano quale continuatore del precursore Michele Tenore, già creatore dell’Orto Botanico di Napoli il quale, nell’estate del 1826, costituì una vera e propria comitiva scientifica che si mosse da Napoli a Cosenza, passando per i Monti Alburni, per il Pollino, per il monte Cocuzzo, in una spedizione botanica, durante la quale furono rilevate anche importanti considerazioni di natura paesaggistica, economiche e sociali, senza tralasciare osservazioni argute sulla cultura materiale e sul paesaggio antropico.
Certo, la visione di Fortunato è in tal senso eccessivamente fatalista e la questione meridionale, nelle sue analisi, assume un risvolto decisamente pessimista; in una sorta di relazione-proporzione con le asperità del territorio sosterrà, infatti, che il meridione «è quello che ne han fatto la natura ingrata e la sorte avversa: una gran causa di debolezza, politica ed economica, per tutta quanta l’Italia, il cui destino è quindi riposto nella resurrezione del Mezzogiorno». Ed è proprio per questi motivi che si batterà, per molti anni, da Parlamentare, per la gestione oculata delle risorse idriche, per il rimboschimento e la viabilità e, più in generale, per contrastare i fenomeni già all’epoca accentuati di dissesto idrogeologico.
Ecco quindi che Giustino Fortunato, ancorato ad una inossidabile antiretorica, guardava in faccia la cruda realtà provando a cercare risposte, facendo concrete proposte per risolvere problemi, senza mai fermarsi.
Fino a quando le condizioni di salute glielo permisero, percorse a piedi gli Appennini quale gesto liberatorio e indagatore, per rendersi conto dei problemi del territorio e delle difficoltà delle popolazioni, in una spietata analisi e conseguente azione concreta ben sintetizzabile nel concetto, attribuito a Diogene di Sinope, del Solvitur ambulando che – dissacrando i paradossi di Zenone – attribuiva al movimento un potere liberatorio e risolutore.
Tuttavia alla visione un po’ cupa e tragica del Fortunato, nell’individuare nell’asperità del paesaggio e nelle difficoltà delle comunicazioni alcune tra le principali cause di povertà e miseria, materiali e morali, delle popolazioni, intrinsecamente fa da contraltare la fine capacità descrittiva, analitica, dei caratteri naturalistici del territorio; capacità che è propria della ricerca scientifica di cui Fortunato si rende attivo protagonista durante le felici erborizzazioni effettuate nelle escursioni, con finalità di indagine paesaggistiche e botaniche, nelle quali si accompagnava agli scienziati Pedicino e Giordano.
Probabilmente le descrizioni naturalistiche dell’Appennino di Giustino Fortunato possono essere annoverate, ultime, tra quelle romantiche del Gran Tour dell’aristocrazia europea tra il XVII e il XIX secolo. E l’Appennino in tal senso può essere considerato la cifra sulla quale innescare paradossi, analisi e soluzioni di grandi questioni sociali.
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Bibliografia
Adinolfi G. – ‘e vvie sulitarie. L’Alta Via dei Monti Lattari con Giustino Fortunato alpinista da Cava de’ Tirreni all’isola di Capri lungo la penisola di Sorrento. Tipolitografie Eurograf, Sorrento (Napoli) 2011.
Fortunato G. – Carteggio 1865-1911. A cura di Emilio Gentile, Laterza, Bari 1978.
Fortunato G. – Corrispondenze napoletane. Brenner, Cosenza 1990.
Fortunato G. – Il Mezzogiorno e lo stato italiano, discorsi politici (1880-1910), (2 vol.), Laterza (Bari) 1911
Palazzo P. – Club Alpino Italiano, Sezione di Napoli, 1871-1971. C.A.I. Napoli, Tipografia dell’Ind. Tip. Merid., dicembre 1970.
Palumbo G. – La vicenda di Giuseppe Camillo Giordano. Frammenti d’erbario di un botanico romantico. Adda edizioni, Bari 2014.
Michele T., Petagna L. e Terrone G. – Una spedizione botanica in Calabria. Rubettino Editore, Soverìa Mannelli (Catanzaro) 2009; (Titolo dell’edizione originale: Petagna, Terrone, Tenore, Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria Citeriore. Tipografia francese, Napoli 1827).
Scaramella P. – Solvitur ambulando: la ventennale attività pedestre di Giustino Fortunato – in “Sentiero degli Dei. L’Appennino Meridionale. Periodico di cultura e informazione della Sezione di Napoli del Club Alpino Italiano”, anno IV, fascicolo II, pp. 123-132, Napoli 2007
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