Progettare la lentezza. Una proposta possibile per rigenerare gli appennini
di Paolo Pileri
Progettare la lentezza. Una proposta possibile per rigenerare gli appennini con lunghe ciclabili e grandi cammini
In un presente in cui siamo sommersi di velocità, in cui dicono che chi è veloce vince e guadagna e chi è lento rimane indietro e perde, sosteniamo invece che la lentezza sia una risorsa preziosa, inclusiva, rigenerativa, con la quale arrivano lavoro per i giovani, felicità per tutti ed economie sane e locali. Sentieri, ciclovie, cammini, ippovie, vie d’acqua sono fili antichi ma dimenticati, interrotti, spezzati. Quelle linee lente sono una grande opera pubblica rigenerativa e per giunta a basso costo e ad alto rendimento. In Europa lo sanno bene e molti Paesi si sono attrezzati da tempo, come la Germania che negli ultimi 30 anni ha messo a punto una rete di lunghe ciclovie che somma 50.000km e con cui genera un indotto medio annuo di 9 miliardi di euro di cui la metà si distribuisce nei territori dove il turismo non arrivava. .
Si chiama turismo lento ed è ben altro dai format del turismo di massa, tutto concentrato a vendere e far spendere in pochi posti ad alto rendimento per pochi.
Lungo i percorsi lenti quel che conta è rigenerare quel che si incontra – i territori e i loro abitanti – e quelli che passano – camminanti o pedalanti che siano. Quelle tracce lente, naturali e/o antiche, diventano il telaio infrastrutturale sul quale si innesta un nuovo modello di sviluppo, locale ma anche globale, sociale ma anche individuale, culturale ma anche economico.
Chi viaggia lentamente per più giorni entra nei piccoli borghi, vi soggiorna, cena, incontra, visita. Chi viaggia lentamente passa per boschi e valli, costeggia fiumi e laghi, sale e scende per colline, cammina o pedala sul bordo dei campi. L’alta velocità di treni e auto ci porta a ‘saltare’ quegli spazi, a superare il paesaggio quasi senza vederlo perché ciò che conta è andare da un luogo all’altro perdendo di vista quel che sta in mezzo (Turri E., 1998).
E invece le aree interne, di cui l’Appennino è gran parte, sono uno scrigno di bellezza, storia e diversità che non possiamo accontentarci di guardare da lontano, ma che va rifrequentato e fatto rifrequentare, ma senza torcergli un capello tanta è la sua fragilità. E siccome ognuno di noi si impegna a salvare quel che conosce, l’idea di pensare un grande progetto per rinnovare le tracce della lentezza diviene anche lo strumento per riportare la gente nel cuore di quell’Italia inclinata che ha bisogno dei nostri sguardi per sentirsi più al sicuro. Le tracce che proponiamo non sono quelle della piccola rete escursionistica locale affidata ai comuni, della sentieristica regionale o delle ciclabili urbane.
L’idea è cambiare scala, abbracciando una visione fatta di lunghissime linee lente come Sentiero Italia CAI o la via Francigena o il cammino di Sant’Antonio o le più recenti ciclovie come il progetto VENTO lungo il Po (www.cicloviavento.it) o la futura ciclovia dell’acquedotto pugliese e tanto altro. Tutte linee lunghe centinaia e centinaia di km ma che oggi giacciono sbriciolate, dimenticate o incompiute. Linee che sulla carta potrebbero dare tanto al Paese ma che finiscono per rimanere intrappolate in una prospettiva circoscritta a piccoli areali, piccoli progetti, piccole tratte e a piccoli numeri ancora lontani dal garantire quel livello occupazionale permanente e distribuito che vorremmo e che l’Italia interna merita.
Molti sforzi sono stati fatti dalle comunità locali, dai volontari, dalle associazioni e da alcuni imprenditori coraggiosi per tenere in vita quel poco di turismo lento che esiste. Una certa sensibilità è notevolmente cresciuta negli ultimi anni, ma siamo ancora lontani da quel fenomeno di lentezza itinerante che è, ad esempio, il Cammino di Santiago di Compostela (una media di 1500 passaggi al giorno per 200 giorni all’anno) o da quella ciclovia lungo il Danubio che conta fino a 5000 passaggi al giorno nei periodi di punta.
Se nel nostro Paese, culla del paesaggio, la rete di percorsi lenti di fatto non esiste nell’immaginario e nei fatti o è fatta da mille cocci sparsi qua e là è stato sicuramente per un errore umano di sottovalutazione. Non si è creduto che la lentezza potesse fare la differenza e potesse essere la base su cui innestare un sano turismo lento. Continuare a non capirlo oggi, sarebbe un perseverare irresponsabile e fatale. Eppure, per esempio, non abbiamo ancora un quadro globale e soprattutto ufficiale dei grandi cammini italiani. Non abbiamo criteri univoci che li identifichino e li classifichino. Non abbiamo una mappa unica ufficiale. Men che meno abbiamo una linea di finanziamento pubblica. La politica non ne parla. Non vi è nei ministeri un dipartimento o una sezione tecnica che abbia in carico la rete dei percorsi lenti. Solo recentemente il MIT ha un piccolo ufficio che si occupa con impegno e notevolissime difficoltà del Sistema Nazionale della Ciclabilità Turistica (istituita nel 2016). Pochi anni fa il MIBACT ha fatto alcuni tentativi di sistematizzazione dei soli cammini dando avvio a un Atlante dei Cammini d’Italia che è ancora in larga parte incompiuto e imperfetto. I motivi di questa disattenzione, possiamo chiamarla così, sono molteplici e non è qui la sede di analizzarli.
Sicuramente è poco noto il potenziale che i turismi lenti sono in grado di scaricare sui territori in cui passano, come ricordato sopra nel caso della sola Germania che vanta un numero di occupati full-time dieci volte maggiore a quello italiano. Altrettanto sicuramente non si è colto il potenziale di queste linee nel loro ruolo di rigenerazione dei territori e nella capacità di ridurre i divari sociali tra le aree interne del Paese e il resto.
Non si è capito che il progetto di lentezza non si fa per fare un piacere a pellegrini e ciclisti, ad associazioni o tour operator, ma è per impostare un progetto di territorio che, prendendo spunto dalla buona realizzazione di linee lente come ciclabili o cammini, ripensa i propri obiettivi, ridisegna la scala di pianificazione (quella della linea e non più solo quella comunale), fa spazio alla sostenibilità, diventa un grande progetto culturale, ripianifica le attività imprenditoriali e lavora a un’idea di turismo nuova che non ha nulla a che fare con il turismo di massa che ha corroso le coste e le Alpi o che ha promocommercializzato le città d’arte al punto da soffocarle o, fenomeno più recente, che usa le bellezze naturali o artistiche per far fare selfie e attirare gente pagante. Tutto questo va tenuto alla larga dagli Appennini che sono un mondo da sempre in bilico, fatto di equilibri precari, di dolcezze e storie fragili.
La lentezza che proponiamo non può diventare un nuovo campo pratica per nuove forme di speculazione e consumo, bensì può essere l’energia per una visione più audace, più duratura, più inclusiva e soprattutto più rigenerativa del territorio e dei suoi abitanti. Per questo non proponiamo piccoli esercizi di lentezza fatti di piccole ciclabili o piccoli sentieri ma di dilatare l’ambizione a una grande rete nazionale di percorsi lenti che dovrebbe far parte di un vero e proprio progetto politico pubblico e cooperativo, visionario e concreto. Si tratta di una proposta strutturale dove il disegno e la realizzazione dei percorsi lenti precede la promozione, e non l’inverso; dove il ragionamento su quale turismo non fa bene agli Appennini viene definito prima di qualsiasi azione di marketing.
Il progetto di lentezza che cerchiamo non è già scritto, né può permettersi di improvvisare tattiche e azioni, né può farsi guidare da chi un attimo prima era a capo di qualche destinazione turistico di massa che, una volta spolpata, giace da qualche parte sfiaccata e abbandonata. Il progetto di lentezza va desiderato, pianificato seguendo regole, argomenti e paradigmi culturali diversi. Un progetto che deve riuscire a dire al Paese che si può crescere proprio rallentando.
Crescere rallentando è la sintesi di una sfida possibile e a portata di mano.
Non solo, essendo la lentezza a portata di tutti – mentre la velocità costa – se ben progettate e manutenute quelle tracce di lentezza possono frequentarle tutti, abbienti e non, esperti e non, giovani e non, abili e non, italiani e non. E tutti possono imparare. Riconoscere paesaggi. Incontrare gente. Toccare con mano le forme della bellezza che ancora anima il Bel Paese. E questi flussi che si disperderanno seguendo le linee, stimoleranno nuova occupazione sempre che capiremo per tempo che il turismo lento non è un fatto per soli volontari e associazioni, ma una leva per le economie sostenibili. Per tutto questo e per tanto altro, il progetto di lentezza diviene politica pubblica e come tale deve trovare posto nell’agenda istituzionale.
La lentezza ha quindi bisogno di qualcuno che se la prenda in carico. Che la progetti e la attui. Che formi i tecnici locali. Che spieghi alle comunità che bisogna cooperare e non dividersi, perché nessuno si salva da solo mentre se ognuno intuisce di essere parte di un tutto, come le perle lo sono in una collana, allora le probabilità di salvezza aumentano. Abbiamo tutti gli ingredienti perché ciò prenda forma e duri. Linea, lentezza, viaggio sono i tre pilastri di un possibile progetto di lentezza che potrebbe avere proprio negli appennini il suo laboratorio naturale. Progettare la lentezza è una proposta che offriamo agli appennini, ma anche un manifesto possibile in cui guardare al futuro.
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