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Civiltà Appennino

  /  Cammini in Appennino   /  Sull’Appennino c’è spazio. Sull’Appennino c’è tempo.

Sull’Appennino c’è spazio. Sull’Appennino c’è tempo.

di Emiliano Cribari

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chiudi gli occhi
immagina una gioia
molto probabilmente
penseresti a una partenza

 Sono i versi iniziali di una tra le più illuminanti visioni poetiche di Niccolò Fabi. Se io chiudo gli occhi e immagino una gioia, mi trovo immerso in un bosco di pini, è il 3 giugno. Ho appena iniziato un viaggio a piedi che dall’Appennino Tosco- Romagnolo mi porterà fino a L’Aquila, in Abruzzo. Ho addosso un vento fresco, liberatorio, che spolvera i crinali delle montagne. In alto, sciami di nuvole bianche arredano il cielo. Ho deciso di partire neanche un paio di settimane fa, mosso dall’irrequietezza, dalla fragilità, ma anche dall’orgoglio, dalla fierezza, che mi accomunano alle frange più selvagge dell’Appennino. Ripasso con lo sguardo i contorni tremanti di queste terre solitarie, marginali, nel limbo di confine tra il silenzio e il vocìo, tra il pieno e il vuoto. Cammino affamato in un banchetto sfavillante di colori, di odori, di orizzonti feriti dalle lame affilate delle montagne.

Mi aspettano oltre mille chilometri di emozioni. Di salite e di discese, di paesi, di persone. Di notti stellate e di furenti temporali. Oltre mille chilometri di incertezze e di paure. Di gioie improvvise e di profonde solitudini. Di domande e di indomabili, ostentati, silenzi. Con me ho un taccuino e una macchina fotografica, con i quali appunto tutti i silenzi che incontro. L’Appennino è un silenzio introvabile altrove. Si può camminare per ore senza incrociare una sola persona.

Senza assistere a un suono. Una lucertola in fuga è un sussulto: sfrangia la terra, l’accartoccia. Certe volte un trattore, che gratta, striscia, borbotta. Che annuncia un paese. In questi mesi ho incontrato centinaia di paesi. Invisibili, disabitati. O abitati soltanto dalla sigla di un telegiornale; da un nido d’olio che frigge rincorrendo il filo caldo di un profumo; da un dimesso tintinnio di posate. Quando arrivo in un paese rallento. Mi fermo. Chiudo gli occhi. Respiro nell’incavo più profondo del petto. Mi sento eletto. Ringrazio. Preparo i sensi al disvelarsi, imminente, del sacro. Li invito a fluire oltre il corpo. A scivolare. A farsi incontro, sguardo, ascolto. Nei paesi arroccati sull’Appennino tutto parla, tutto tace. Ogni odore è una radice.

Ogni pietra è una fatica, un pianto, un sorriso: una storia. Io d’istinto scelgo una via, una traiettoria, e seguo quella: ho un metodo mio, che utilizzo per cercare di non perdere scorci, occasioni, di non tralasciare neanche un vaso, neanche un manico di scopa appoggiato alla porta di una cantina. Nei paesi più remoti di queste montagne io traggo linfa, incontro i miei nonni, scrivo. Soprattutto al mattino. Imparo i dialetti, accolgo con clemenza il ronzio di una mosca; mi accorgo di un minuscolo fiore, del mio ginocchio destro, provo amore. Dopo un po’ che cammino, scelgo un posto – appartato, un gradino, un brandello di muro – e mi siedo. Lì, quasi sempre trovo una risposta. A chi mi ha chiesto dove abiti, che lavoro fai. Sull’Appennino dei paesi io esisto, non ho smanie. Potrei starci per ore. Aspettando di parlare con qualcuno. In un’altra vita io sono già stato vecchio. Io sono sempre stato vecchio. Ho sentito, distintamente, cosa si sente da vecchi. Quando il tempo si contrae, quando il saluto di qualcuno diventa una gioia capace di invadere un’intera giornata. Quando una cosa che passa – una farfalla, un alito di vento, la vicina di casa – non è mai passeggera. Io ancora oggi ho paura, per gli anziani. Ho paura che si sentano indifesi, minacciati. Così quando li incontro – nei paesi, per strada, soprattutto qui, sull’Appennino, dove ci si incontra senza quel cattivo senso d’abitudine che avvelena le città – dedico loro un sorriso, un gesto gentile. Mi sembra una piccola rivoluzione. In questi mesi in cui ho viaggiato – sempre a piedi – lungo la spina dorsale dell’Italia interna, ho veduto interminabili spazi. Ho riempito per intero il mio sguardo di spazi. Sull’Appennino c’è spazio. Ci sono migliaia di case da riabitare, di piazze da rianimare. C’è lavoro da fare. C’è terra da coltivare, ci sono acque da regimentare. C’è il bosco, essere immenso e ribelle, da ascoltare. Ci sono chiese chiuse da anni. Lungo la “Via di Francesco” – un percorso che collega il Santuario della Verna, sull’Appennino Toscano, ad Assisi, in Umbria – i boschi sono trapuntati di chiese inaccessibili, serrate. Perché “mancano i preti, mancano i frati”. Tornare in queste terre significa anche questo: potersi riappropriare di questi luoghi. Creando associazioni capaci di gestire il sacro e il naturale, di assistere al parto di una nuova, sconvolgente, bellezza.

Camminando sui crinali – specie al mattino e alla sera – si spalancano scenari impressionanti, anfiteatri di rocce millenarie che chiedono soltanto un canto, un pianoforte, una voce. Questa è una terra che desidera grazia. Se riabitare l’Appennino significa invadere, costruire, iniettare tonnellate d’asfalto, di cemento, riempire, portare turisti distratti e non viaggiatori attenti, allora no, non importa.

Che il bosco faccia il suo dovere. Che il tempo faccia il suo dovere. Se invece tornare significa ascoltare, osservare, rispettare – le regole, i colori, le luci, di questi magnifici luoghi – allora l’Appennino è il destino, è la cosa più giusta da fare. Qua non c’è niente da costruire: c’è da rimettere mano – con delicatezza, con cura, con i modi e con i tempi di una volta – a ciò che è stato abbandonato. Chiedendo a chi è del posto: “Come si fa?”. Venire quassù vuol dire avere voglia di imparare. Portare entusiasmo e ricevere in cambio un antico sapere. Se devo immaginare questi luoghi trafitti da automobili, addobbati da negozi stracolmi di plastica, inorridisco. Preferisco le crepe di questo Appennino. Bisogna capire che l’Appennino è forse la più grande opportunità che la drammatica emergenza abitativa, sociale, culturale, ci sta offrendo in questi anni: abbiamo ancora il tempo per vedere i nostri figli giocare per strada, riconoscere i fiori del melo e il canto dell’upupa.

Sull’Appennino c’è tempo, ancora. C’è pazienza. Non c’è rabbia, non c’è prepotenza. L’Appennino ha montagne che si chiamano Tiravento e Zuccherodante. Ha idilli d’eremi e monasteri, e lussuosi bivacchi dove ascoltare per tutta la notte il concerto della legna che arde. Ha ciliegi selvatici e improvvisi sospiri d’imbrunire. In questi mesi d’erranza lungo le rotte appenniniche centrali, ho fatto colazione con le more e mi sono lavato con l’acqua, gelida, dei torrenti.

Ho guardato negli occhi un capriolo e ci siamo detti qualcosa di molto importante.

Qualcuno mi ha offerto del vino e qualcuno – sulla “Via degli Abati e del Volto Santo” – due pomodori e anche una pera acerba, buonissima. Qualcuno – a Premilcuore – mi ha offerto una tettoia sotto la quale ripararmi e una suora – a Camerino – un’indimenticabile preghiera. È una terra precaria e generosa, fertile, nervosa. Di qui passarono Francesco, San Romualdo, San Giovanni Gualberto. Di qui passò Dino Campana con Sibilla Aleramo. L’Appennino è un crocevia. Non è niente di esatto e di definitivo. È qualcosa che tentenna ma non cade. Che ha male ma non si lamenta. È una soglia di casa: aspetta soltanto che qualcuno ritorni.


Foto di copertina di Emiliano Cribari per Civiltà Appennino.
Tutte le foto  sulla pagina Civiltà Appennino

Emiliano Cribari
E' nato a Firenze nel 1977. Poeta, scrittore, fotografo, è stato vincitore di numerosi premi e riconoscimenti. Ha pubblicato due libri:"La cura degli istanti" (Transeuropa, 2019) e "La vita minima" (AnimaMundi, 2020). La collaborazione con Civilà Appennino è iniziata grazie ai racconti dei suoi cammini in Appennino sui canali social della nostra rivista.
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