Quale futuro per borghi e terre di mezzo?
di Stefano Rolando
(dal blog www.stefanorolando.it*) Torno oggi ad uno dei miei ambiti disciplinari, a cui da anni dedico energie allo scopo di uscire dalle strette del marketing territoriale per leggere meglio le identità, le narrazioni, il rapporto di città e di territori con l’immaginario e la percezione, non solo allo scopo di “vendere” ma prima di tutto allo scopo di “essere” e in particolare di “saper progettare il proprio futuro”. Futuro che è fatto di cose materiali ma anche immateriali. Dunque, il brand inteso come patrimonio simbolico condiviso.
La città – ormai lo sappiamo – ha un forte potere di rappresentazione (parola che costituisce l’oggetto di questi nostri podcast). Perché – pregi e difetti – in realtà le città crescono prepotentemente di ruolo, risorse, funzioni, servizi, importanza.
Prendiamo una città italiana che sta correndo – immagine in evoluzione, attrattività concreta in ascesa – mi riferisco a Napoli. Ebbene, mentre sta vincendo nel calcio in Italia e in Europa, ha anche un turismo a cui Time dedica la copertina e conta in questi giorni 18 set cinematografici in piedi per raccontare storie ambientate (speriamo non troppo cariche di stereotipo) nella storia bimillenaria della città. In verità nessuna città può permettersi di dormire, la dimensione competitiva non riguarda solo le metropoli ma anche le città medie.
Dall’altra parte della polarizzazione ci sono territori che una volta si definivano agricoli che sembrano oggi trasformati in due modalità a loro volta polarizzate: o tacciono nel loro abbandono e nella loro residualità; oppure vanno rigenerando una bella comunicazione, mescolando qualità ambientali e qualità della produzione enogastronomica, diventando brand internazionali. Il Chianti, il Monferrato, il Salento, le Dolomiti, eccetera.
Tra città e campagne si snodano dunque quelle che si chiamano “Terre di mezzo”, un campionario in Italia di più di 4 mila comuni, che talvolta vengono chiamati con l’espressione burocratica di “Aree interne”, altre volte – più comunicativamente – vengono chiamati “Borghi”. Espressione più evocativa, un po’ di ritorno alla tradizione, un po’ di fuga dalla frenesia, dalla cementificazione, dalle disuguaglianze dei sistemi urbani. Una superficie che – tutto compreso – occupa il 70% di una paese come l’ Italia. Ma la cui forza di sussistenza, di resilienza, di garanzia di vita e servizi, diciamo la verità, rispetto ai due poli prima citati, non è solo l’anello debole ma anche spesso il soggetto più taciturno, meno carico di narrazioni fondate sulle notizie, il più a rischio nel rapporto tra promesse e realtà.
Capito, per la presentazione di un libro su questo argomento, in una ampia e ben organizzata fiera a FieraMilanoCity, nei tre giorni di questo fine settimana snodata su 32 mila mq, 459 espositori, e un’ipotesi di 50 mila visitatori alla fine, tra cui 6 mila studenti e 700 relatori, io tra questi. Non numeri da capogiro, ma da partecipazione interessante. Una fiera che si intitola “Fai la cosa giusta”. Monito ai consumi turistici, ma anche forse consiglio per alternative di vita.
All’origine di questo evento vi è una casa editrice – che non casualmente si chiama Terre di Mezzo – oggi con un grande catalogo sulle “buone pratiche “in materia di qualità della vita. Parliamo di una discreta aggregazione di territori che vengono “camminati” – nel senso letterale del termine – da un bel pezzo di umanità (cultura, natura, originalità, cibo genuino) in una logica che viene chiamata “di rallentamento qualitativo”.
Così mi misuro con sindaci di piccoli, a volte piccolissimi, comuni. Lazio, Abruzzo, Sardegna, Calabria, Piemonte. Eccetera. Che cercano soluzioni tra le promesse che questo genere di eventi tendono a magnificare e la possibilità concreta di rischiare sconfitte, alla fine a causa di distanze non sostenibili rispetto alle grandi e ineludibili infrastrutture della modernità che rendono la vita vivibile nel nostro tempo: l’istruzione, la salute, la mobilità, l’acqua, le dinamiche digitali.A loro è ben chiaro che su questi fronti bisogna affrontare difficoltà. Di progetto, di organizzazione, di risorse.
Misurarsi con questi sindaci – quelli che non vogliono far da soli e che cercano di capire come accedere a reti – è una strada anche per capire meglio la consistenza del civismo amministrativo che guida in Italia fino al 30, forse al 40 per cento, comuni sotto i 15 mila abitanti. Ed è anche una risposta a chi ha scritto che dei borghi parlano più coloro che per moda vogliono insegnare ai borghi la loro identità che creare le condizioni per fare esprimere quei borghi. Barbera, Cerosimo e De Rossi hanno scritto l’anno scorso un pamphlet che si intitola provocatoriamente “Contro i borghi”, pubblicato da Donzelli, che se la prende alla fine un po’ con – cito – “il borghese illuminato e riflessivo che adotta il borgo bello ma bisognoso, ma che misconosce l’autonomia dei territori, la loro libertà di dire no, il loro carattere morale e paritario nel produrre strategie di sviluppo”. Ci sarebbe da discutere molto, ma prendiamo intanto atto che un filo di dibattito è innescato.
Il libro che presento è del mio amico architetto Sandro Polci, si chiama “Borghi in cammino”, Il lavoro editoriale, promosso dalla Associazione “Borghi autentici”, associazione presieduta dalla sindaca di Roseto Capo Spulico, in Calabria, Rosanna Mazzia, che ha radunato in sinergia 300 comuni sparsi in Italia.
Mentre la responsabile dell’Albergo Etico di Sondrio (in cui opera, grazie all’ entusiasmo della volontà, personale disabile) gira con un vassoio di meravigliose e vaporose meringhine che offre ai visitatori. E tra gli stand è tutto un raccontare storie comuni, di vie naturali, di cammini, di scoperte di luoghi.
Il tema di Polci, circa la questione dell’anello debole, è questo: “ce la fa chi si mette in cammino”. E il cammino è quello di ogni comunità, piccola o grande. Dalle tradizioni dell’economia primaria (l’agricoltura) a quella secondaria (la produzione manifatturiera), a quella terziaria (servizi e turismo) a quella digitale (connessione e mobilità immateriale).
Chi ce la fa? Chi non si aspetta sempre tutto dall’alto. Polci aggiunge: “Anche chi non si commisera”.
La mia proposta è di recuperare la cosiddetta “filiera virtuosa”: città, campagna e aree intermedie. Soggetti responsabili uno dell’altro, in una dinamica di integrazione funzionale.
Viene da pensare se Milano (che traina una delle filiere più virtuose d’ Europa, l’area padana) sia fino in fondo conscia e consapevole del tema sollevato. Ma qui si vedono tanti milanesi che sembrano consci e consapevoli. Così Napoli, rispetto alla sua vasta area, che comprende ambiti di grande difficoltà sociale ma anche gioielli turistici.
Penso che forse stia diventando persino sbagliato o comunque sterile continuare a chiamarle città metropolitane. Che dà l’idea della egemonia dichiarata della città che allarga sé stessa. Magari allungando le linee della Metro, ma allungando anche i conflitti identitari tra la metropoli e le comunità dell’hinterland. In realtà il patto che potrebbe funzionare è quello di filiere integrate di forme urbanistiche diverse.
Insomma, avere una “strategia di sviluppo” vuol dire creare condizioni di relazione e cooperazione, non pensare di farcela da soli.
Chi resta solo – in questa immensa area interna – oggi muore.
Nel libro di Sandro Polci molto bello è il testo dell’architetto e urbanista catalano Josep Acebillo, che dimostra che anche in queste discipline c’è chi si dedica (come fanno ormai anche i medici) a dettagli specialistici. Ma c’è anche chi conserva anche culturalmente una visione olistica e soprattutto sistemica.
Le aree interne sono state un grande impegno al governo, ma anche dopo, di Fabrizio Barca, economista ma anche grande camminatore di montagna, già ministro della Coesione nel governo Monti, che creò la legge trovando le risorse per interventi di trasformazione. E nel libro risponde così alla domanda di cosa serve a rilanciare questa politica: “Serve anche uno Stato che torni ad avere strategie di sviluppo dei territori, non dirigismo di mercato. ma orientamento del mercato attraverso gli orientamenti della domanda pubblica (salute, scuola, eccetera) e le regolamentazioni”.
Poi alti e bassi nelle politiche governative al riguardo, varie discontinuità.
Oggi è tutto un parlare di nazione, unità nazionale, interesse nazionale.
I sindaci, in questi complesso e disomogeneo tessuto nazionale, sono una forza piuttosto rispettata e rispondono alla logica italiana di una grande filiera di soggetti grandi, medi e piccoli che possono partecipare al dibattito sulle ipotesi del futuro in modo pragmatico e sperimentato. E quindi discutere in questa fase con un governo che ancora non si sa quello che pensi e quello che concretamente voglia fare in materia. Anche a causa delle difficoltà emergenti di far quadrare la progettazione concreta del PNRR.
Su cui la presidente di Borghi Autentici, la sindaca Rosanna Mazzia, lancia un allarme: “In questo momento il PNRR appare come il maggior tradimento e la maggiore delusione di tutto ciò che va sotto il nome di Terre di mezzo”.
Ero lì mentre lo diceva e – come si dice – dovere di cronaca riferirlo.
*articolo tratto dal blog https://stefanorolando.it/?p=7459 con autorizzazione dell'autore