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Costruttori di ponti con l’Italia interna. Il ruolo civile dei restanti

di Gianni Lacorazza

Un tempo i giovani, a volte anche in età precoce, per studiare e costruirsi un futuro, dovevano “partire” dai loro piccoli centri; paesi dell’entroterra incapaci di offrire giuste opportunità e, soprattutto dal Sud, prepararsi alla “partenza” era un esercizio psicologico che durava tempo e coinvolgeva tutti: familiari, vicini, amici.
Lo racconta bene Leonardo Sinisgalli quando a soli 9 anni, nel 1917, dovette partire da Montemurro per andare a studiare a Benevento, in collegio, come il prete del paese aveva suggerito alla madre. “Io dico qualche volta per celia che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sull’Agri crollò un’ora dopo il nostro transito; mi convinco sempre più che quanto mi è accaduto dopo di allora non mi appartiene, io sento di non aderire che con indifferenza al mio destino…”.

Il secolo che è trascorso da allora, di partenze ne ha viste tante. Quasi tutti i giovani sono partiti o hanno provato a partire. Pochi sono quelli “restati”. Ed ovviamente sono restati per sopravvivere, per mantenere un minimo di propria condizione dignitosa, in alcuni casi anche qualche fortunato a cui è andata bene proseguendo le attività di genitori o facendo carriera in qualche azienda o istituzione. Ma pochi, forse nessuno, hanno potuto in incidere davvero sul futuro dei luoghi in cui sono nati e restati.

In questi ultimi anni qualcosa è sicuramente cambiato e l’attenzione alle aree interne ne sta beneficiando. Da un lato, ormai da tempo si parla di nuove strategie e politiche ad hoc per le aree interne, che hanno messo su carta analisi e possibili soluzioni per il rilancio di una quota di Paese che viene stimata circa del 60% e dunque più che degna di attenzione. Dall’altro, la pandemia ha amplificato ed accelerato la corsa a spingere sui “borghi”, a mettere attenzione ai paesi, alla montagna, alle aree marginali, “ai sud” dell’Italia fino a giungere alle risorse che il PNRR ed altre misure strategiche (SNAI) devono investire in questo rilancio.
Chiaramente l’attenzione non è solo politica e di classi dirigenti ma le persone, le imprese, pian piano stanno acquisendo consapevolezza di come la redistribuzione dei flussi sociali ed economici possa essere un beneficio sia per le aree marginali e sia per quelle troppo antropizzate. Non piace più come prima la città che corre, non piacciono più come prima i luoghi del turismo stracolmi. Si cerca altro: per lavorare, per viaggiare, per vivere. E questo coinvolge anche i giovani.

In questo quadro si infila uno dei principali antropologi italiani, Vito Teti, con il suo libro “La restanza” (Einaudi) e lo fa ponendo l’attenzione non solo sul restare da parte dei giovani, magari del ritornare e dunque su “dove” vivere, ma soprattutto sul “perché” restare e “cosa” fare affinché i luoghi in cui decidiamo di investire il nostro futuro possano cambiare, migliorare. E dunque provare a mettere a disposizione il know how personale e sociale di cui oggi siamo possessori per rendere le nostre aree interne migliori di come le abbiamo trovate e di come ci sono state anche lasciate da decenni di corsa verso destinazioni più ricche.

Civiltà Appennino si occupa di questo tema da anni; tanti nostri autori hanno preso a riferimento questo concetto e lasciato qui il loro pensiero, con il risultato di aver creato uno stimolante dibattito a più voci, da osservatori differenti.

 


Le sezioni su WWW.CIVILTAAPPENNINO.IT

https://www.civiltaappennino.it/category/restanza/

https://www.civiltaappennino.it/category/aree-interne/

https://www.civiltaappennino.it/category/manifesti/


 

Ed anche le pubblicazioni della serie Civiltà Appennino che Fondazione sta realizzando prima in collaborazione con Donzelli Editore ed oggi con Rubbettino Editore sono attraversate da questa filosofia sin dal primo del volumi.
Nell’ultimo dei libri – “Buon Appennino. La cultura del cibo nell’Italia interna” – in uscita in queste settimane, ospitiamo anche un contributo proprio di Vito Teti, il quale racconta di una Calabria arbereshe e delle sue tradizioni culturali e gastronomiche che rappresentano un’ancora solida alla restanza in quelle aree e sicuramente anche una piattaforma di futuro per restanti. L’identità di una comunità e di un territorio è inevitabilmente il punto di partenza per rivalorizzare le potenzialità e migliorare con nuove energie quei luoghi che nei decenni hanno accumulato ritardi e difficoltà, spopolandosi.

Un lavoro che Fondazione Appennino svolge nella sua quotidiana attività di supporto ai territori interni, ad esempio, innanzitutto nelle scuole e si rivolge direttamente ai giovani, affinche nella loro fase di formazione possano anche costruirsi il ruolo di “architetti sociali”, ovvero di costruttori e ri-costruttori di ponti che possano far superare fiumi di luoghi comuni, ostacoli storici.

L’obiettivo di questa filosofia progettuale, non è quello dunque di contrapporre la “restanza” alla “partenza” ma di non far crollare, o addirittura ricostruire, quei tanti ponti sul fiume Agri di sinisgalliana memoria che consentano alle menti migliori, ai giovani pieni di entusiasmo e competenze, di non spezzare la via di collegamento con il mondo anzi, che proprio su quei ponti ci sia un via vai di persone che tornano per restare, che viaggiano per crescere, che transitano per contaminarsi, per far conoscere tradizioni e buon cibo e che portino nei bagagli anche tanta fiducia e visioni.

Gianni Lacorazza
Condirettore Civiltàappennino.it
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