
Le “Geografie plurali” dell’Appennino letterario
Di Anita Ferrari
Dall’Emilia all’Aspromonte, dalle Langhe ai monti Iblei, quella appenninica è una categoria geografica ed etno-antropologica che caratterizza le regioni interne, “dell’osso”. Espressione di un’identità mediana, l’Appennino è una radice culturale profonda fatta di emarginazione, periferie e sradicamenti che, in virtù delle sue peculiarità «genetiche», si ricompone in un filone riconoscibile, traducendosi in una narrativa compatta e trasversale, impastata di terra e modernità.
Una geografia plurale, capace di restituire nuova centralità a luoghi, autori e opere che rimandano alla provincia, non solo meridionale, «ai luoghi, alle terre, alle acque, ai venti che li hanno generati», ma sui quali non può continuare a gravare l’ipoteca del provincialismo.
Inserendosi nel solco della profonda revisione critica operata dalla rivista «Appennino. Semestrale di letteratura e arte» – di cui si antologizzano, in appendice, alcuni significativi contributi – i saggi che compongono il volume intendono completarne le riflessioni e le ragioni, attraverso vicende, momenti e casi emblematici, da Carlo Levi e Rocco Scotellaro, passando da Luchino Visconti e Pasquale Festa Campanile fino a Giuseppe Lupo, tutti indagati in chiave onomastico-letteraria, sul filo dei nomi, intesi quali imprescindibili “soglie” narrative.
A ogni luogo, un’identità. E ogni identità al suo luogo. Così per Levi, in cui il paesaggio corrisponde intimamente alla storia e al destino di un popolo, che lo esprime e, insieme, ne è espresso, geografia umana e culturale che, anche quando è nutrita dal mito, resta sempre «realtà di esistenza», incrollabile certezza, «amore della propria somiglianza»: dalla Russia de Il futuro ha un cuore antico, alla Sardegna di Tutto il miele è finito, dalla Basilicata del Cristo alla Calabria e alla Sicilia de Le parole sono pietre, «sempre i paesi di Carlo Levi diventano sempre “suoi”, legati a questo ospite in perpetuo stato di grazia da un rapporto come di consanguineità, d’identificazione con una realtà interiore, con un simbolo lirico, esistenziale e razionale e storico» (così, dalla sovra coperta della prima edizione de La lunga notte dei tigli, il resoconto di viaggio del «torinese del Sud» nella Germania del secondo dopoguerra); allo stesso modo per Visconti, in cui il paesaggio, imperativo categorico della sua grammatica della macchina da presa ed elemento cardine del suo realismo, non è semplice veduta esteriore ma emblema, luogo antropomorfizzato che, simbolizzandosi, anche grazie alla “scrittura in movimento” di Festa Campanile, finisce per assumere i tratti stessi della comunità che lo abita o di chi, costretto a sradicarsi, ha dovuto allontanarsene, dolorosamente: anche nel paesaggio vago e rarefatto dell’assenza, dilatato dal ricordo e dalla nostalgia, si ritrovano, comunque, riconoscibilissime, le immagini e i segni di un vasto e indeterminato universo archetipico di significazioni, correlativi oggettivi di una geografia identitaria, collettiva, orizzonte e limite, capace di esprimerne la cultura e le sparse memorie.
Tra sogno e storia, realtà e immaginazione, la geografia “assediata” e pericolante di Lupo, scrittore appenninico dell’ultima generazione, è un archivio utopico della memoria, in bilico tra l’esistere, il restare in vita – aggrappandosi al ricordo per essere rifondata attraverso la trasfigurazione fantastica – e il dissolversi, per sempre: tra le macerie di un mondo perduto, dal quale l’autore si è allontanato ma a cui non vuole (e non può) rinunciare, i luoghi, le geografie appenniniche del ‘silenzio e dell’addio’, si rifondano, come per “miracolo” o per urgenza di verità, in una sorta di mitologia del reale, un dialogo con le origini che, ricomponendosi attraverso un dedalo di personaggi e di storie, si fa paradigmatico di un nuovo modo ibridato, affascinante e moderno di guardare al Sud. E poi Scotellaro, scrittore e intellettuale che ha saputo ritagliarsi un posto rilevante e originalissimo all’interno della produzione letteraria del (neo)realismo.
Superando i moduli stessi di tanta letteratura meridionalistica, Scotellaro tenta il seppur difficile processo di distacco dai modelli estetizzanti e dalle rigide ricostruzioni memorialistico-documentarie degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento per assumere una dimensione più ampia, collettiva ed esistenziale che si traduce in un sentire appenninico, in una scrittura chiara e riconoscibile in cui si mostrano, leggibilissime, le radici profonde della sua identità me(ri)diana, in cui persino il sé trasfigurato – espressione di una crisi che da privata e autobiografica diviene sociale, antropologica, universale pur nella sua “singolarità” – lontano dai suoi luoghi, distratto al bivio delle possibilità e delle infinite scelte del moderno e del nuovo, trova comunque il modo per manifestarsi, per ricongiungersi, in un insopprimibile, volontario vincolo di continuità, al sé autentico di una volta e farsi ancora, pavesianamente, «terra e paese». Identità, memoria e prospettiva per il futuro.
Un filo rosso, insomma, lega le esperienze distese nell’arco di circa un settantennio quanto mai denso e accidentato, gravido di rinnovamento e percorso dai fremiti delle profonde trasformazioni che hanno riguardato società, mentalità e costumi, conformazione e orizzonti dell’immaginario collettivo, dei modelli di comunicazione espressiva e della cultura letteraria.
Il 1945, il 1960, il 1987 e il 2015 sono stati anni cruciali, le tappe di un itinerario che corrispondono a quattro direttrici fondamentali, in grado di chiamare in causa quello che si presenta quasi come un caso letterario plurimo, per almeno due ordini di ragioni: da un lato mettono in luce la divaricazione prospettica tra gli scrittori neorealisti, meridionali e «meridionalisti» del secondo dopoguerra e quelli «appenninici» del quarto Novecento; in secondo luogo perché, in una prospettiva geografica e antropologica, individuano nei rapporti uomo-paesaggio, centro-periferia, locale-globale, il leitmotiv discriminante e costitutivo dei romanzi che hanno visto la luce in questa forse ininterrotta stagione, in cui alla marginalizzazione geografica è corrisposta una troppo superficiale e ingiusta marginalizzazione culturale e letteraria.
Con la pubblicazione del Cristo di Levi, da una parte, e la nascita della rivista «Sud», dall’altra, il 1945 è l’inizio della non ancora superata dialettica tra i due poli ‘sud chiuso in sé’/‘sud specchio del mondo’. Poi la pubblicazione del primo numero de «Le ragioni narrative» in quella sorta di Anno Mille che fu il 1960. Il 1987 del Campiello ai Fuochi del Basento di Raffaele Nigro, romanzo che, aprendolo alla fortuna, ha inaugurato il genere storico-antropologico di matrice appenninica. E, in ultimo, a settant’anni esatti dal Cristo si è fermato a Eboli, il 2015, anno in cui ha visto la luce il primo numero della rivista «Appennino», periodico che, senza cedere a facili analogie, pur svincolato dai criteri valutativi d’indole ideologico-politica, con «Le Ragioni narrative» condivide fisionomia e finalità: lì la neoavanguardia, qui il minimalismo, il globale, il cosmopolitismo. In difesa dell’autentico e dell’umano.
Anita Ferrari, GEOGRAFIE PLURALI. Nomi e luoghi di una nuova geometria letteraria, Ediz. Parco Letterario “Federico II di Svevia”, Melfi, 2019.
- 185, ISBN978-88-944138-9-2 – Premio Carlo Levi sezione “Saggistica regionale” XXII edizione (2020)
