L’Appennino nel cielo di New York
La storia di Charles Paterno, l’uomo che «cambiò il cielo di Manhattan»
C’è un filo rosso che lega le piccole “dolomiti lucane”, le spettacolari montagne tra Castelmezzano e Pietrapertosa nel cuore dell’Appennino lucano, ai grattacieli di New York. Una storia di emigrazione, di coraggio e di successo.
Charles Paterno, il principale protagonista di questa storia, (all’anagrafe italiana Canio Paternò) aveva sette anni quando partì da Castelmezzano, alla fine dell’ottocento, per imbarcarsi su una delle tante carrette del mare dirette in America. Sarebbe diventato in pochi anni uno dei più grandi costruttori di New York City, l’uomo che, secondo la definizione dello storico Umberto Gentiloni, «cambiò il cielo di Manhattan».
Alla guida di una formidabile squadra composta di cinque fratelli e quattro cognati, fu indiscusso protagonista della trasformazione urbanistica della metropoli, con la costruzione di decine di enormi fabbricati tra la Fifth e la Park Avenue, e, più a nord, nel West Side.
Laureato in medicina alla Cornell University, non esercitò mai la professione, pur tenendo sempre molto alla sua qualifica di “dottore”.
Amante del business, ma anche della natura, vestiva con eleganza sobria, e il suo tratto distintivo era un fiore sempre fresco all’occhiello. Vivace, geniale, dotato di grande intuito, aveva la capacità di trarre vantaggio anche dalle circostanze apparentemente più avverse. Uscì indenne, anzi rafforzato, dalla crisi del 1907 e dalla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street del 1929.
Sposò, contro il parere della famiglia, una donna più grande di lui, vedova, discendente da una nobile famiglia olandese che aveva fatto la rivoluzione, e per lei realizzò il suo primo sogno. Costruì nel punto più alto di Manhattan, con splendida vista sull’Hudson, un castello in stile medievale, con quattro torri, trenta stanze, diciassette serre, una piscina coperta, stalle per i cavalli, perfino una fungaia. Il Castello fu la sua residenza fino al 1939, quando si trasferì a Greenwich, nel Connecticut, anche qui costruendo un castello, ispirato all’architettura francese del settecento.
Nella sua residenza di campagna di Armonk, nel Westchester, costruì quattro laghi artificiali e sei mulini a vento, in omaggio alle origini olandesi della moglie, e realizzò chilometri di sentieri ombreggiati per consentirle lunghe e piacevoli passeggiate a cavallo.
Anche nell’attività di costruttore dimostrò di essere più avanti di molti suoi agguerriti concorrenti. Capì per primo che la città si sarebbe sviluppata verso nord, e nella Uptown, a metà degli anni ‘20, realizzò l’innovativo Hudson View Gardens, una città giardino disegnata su misura per le esigenze della nuova “middle class”. Al posto del suo castello, abbattuto senza rimpianti nel 1939, costruì il Castle Village, ancora oggi uno dei più singolari complessi residenziali di New York City.
Alla Casa Italiana della Columbia University regalò una biblioteca di ventimila volumi. La Paterno Library è tutt’ora uno dei più importanti fondi librari degli States sulla storia e la cultura italiana.
Giuseppe Prezzolini, che diresse Casa Italiana per dieci anni, gli fu amico. Lo giudicava il più scaltro e intelligente degli imprenditori di origine italiana. Fiorello La Guardia, il grande sindaco italo-americano di New York, non lo amava, ma non poteva fare a meno di lodarne pubblicamente la genialità.
Morì da ricco, giocando a golf in uno dei più esclusivi club della contea di Westchester. A sessantotto anni coltivava ancora un sogno, che non riuscì a realizzare: costruire la Paterno Tower, un edificio di novanta piani, più alto della Tour Eiffel.
Scherzava su questo suo desiderio di costruire edifici sempre più alti, e di vivere in posti nei quali si potesse guardare il mondo dall’alto. Lo spiegò così in un’intervista al New Yorker: «Sono nato in un paesino di montagna, con i tetti delle case che sembravano toccare il cielo. E mi è rimasta dentro, come un dono di natura, una certa voglia di infinito».