La medicina territoriale del futuro nelle esperienze della SNAI
Il tema della “medicina territoriale” è parte rilevante delle strategie del Recovery and Resilience Facility (RRF) di cui il Paese si sta dotando per fronteggiare la grave crisi aperta dalla pandemia Covid19, a partire dai primi mesi del 2020. Guardare al lavoro che le 72 aree pilota della Strategia nazionale per le aree interne (SNAI) hanno svolto nel campo della salute – uno dei tre settori oggetto di interesse, insieme ad istruzione e mobilità -, può essere un modo per capire come rafforzare i profili attuativi di suddette strategie, con particolare riguardo proprio alle missioni dedicate al tema salute. Dall’esperienza SNAI, in effetti, a mio sommesso giudizio potrebbero venire lezioni utili per organizzare al meglio la “messa a terra” delle riforme e degli investimenti previsti dal piano nazionale.
Proviamo ad argomentare l’assunto. Il tema della riorganizzazione in senso territoriale dei servizi sanitari era ben presente nelle riflessioni dei documenti preparatori della SNAI. La questione, com’è noto, è poi deflagrata in tutta la sua potenza nel corso della pandemia. All’epoca – siamo nel 2012-2013 – era in pieno dispiegamento un processo di “razionalizzazione” del settore che, se da una parte veniva spinto dai vincoli stringenti di contenimento della spesa pubblica, tipici di quella fase politica, dall’altra non poteva certo trascurare la domanda di qualità e uguaglianza delle prestazioni collegate al diritto costituzionalmente protetto alla salute che saliva dalla popolazione.
Due sono state le polarizzazioni in cui si è articolata all’epoca la riflessione: a) la costatazione di un mutato quadro epidemiologico, dove a prevalere sono malattie croniche che comportano bisogni di assistenza diversi rispetto al passato, anche per effetto dell’invecchiamento della popolazione; b) la necessità di spostare risorse finanziarie e umane dall’ospedale, come centro di eccellenza in cui si concentrano le cure – che però costa “troppo” e non sempre costituisce la risposta migliore per i rispondere ai nuovi bisogni -, ai presidi territoriali in cui occorreva modulare un’offerta più capillare e diffusa di servizi socio-sanitari, verso un modello però ancora tutto da definire.
Naturalmente le condizioni di perifericità e scarsa densità abitativa, tipica della condizione in cui si trovavano (e si trovano) le “aree interne” del Paese, sono tutti elementi che spingevano nella direzione di un peggioramento delle ragioni di equità del servizio sanitario, laddove la conseguenza dell’azione in questione si traduceva molte volte nella soppressione di tanti plessi ospedalieri “minori”, ritenuti inefficienti e costosi, senza che il disegno di medicina territoriale – più snello, flessibile, “personalizzato” -, come già detto, si fosse ancora definitivamente compiuto.
Dentro questo dilemma si mossero le iniziative promosse dalla SNAI che hanno puntato a concepire interventi capaci di offrire nuovi modelli di medicina territoriale, complementari al ripensamento in corso della rete ospedaliera ma tenendo in debito conto la qualità dei servizi resi ai cittadini. Da qui l’attenzione al ruolo delle farmacie e della rete dei medici di medicina generale (o pediatri) nei piccoli comuni, la necessità di puntare su strutture e modelli innovativi di organizzazione socio-sanitaria (quali le case della salute), la nuova prospettiva affidata ai servizi sanitari mobili, la maggiore rilevanza assegnata all’assistenza domiciliare integrata ed alla telemedicina, l’importanza della medicina di iniziativa.
Gli esempi di progetti coerenti con suddetti indirizzi, spulciando l’elenco dei tanti interventi inseriti nelle strategie d’area della SNAI, sono davvero tanti. Per restare soltanto a quelli segnalati nell’ultima relazione che il Comitato tecnico aree interne (CTAI) ha consegnato al CIPE (2020), ne cito tre: la Centrale operativa di “Cure transazionali” ubicata presso la sede del Patto territoriale Sangro-Aventino, che “diventa il centro nevralgico di tutto il sistema e dove avviene la presa in carico congiunta della persona da assistere dopo la valutazione del bisogno” nell’area “Basso Sangro Trigno” (Abruzzo); la realizzazione dell’Ospedale di Comunità’ c/o la SPS di Bisaccia nonché il Progetto di teleradiologia per la realizzazione di una rete informatica ospedaliera tra il Presidio Ospedaliero “Criscuoli” di S. Angelo dei Lombardi nell’area Alta Irpinia (Campania); il punto unico di accesso (PUA) per le cure palliative nel distretto di Castenuovo ne’ Monti, con la disponibilità dei due posti letto ad alta intensità assistenziale e spazi attrezzati anche per familiari previsti dal progetto e l’infermiere di comunità, con l’apertura di un Centro che “opera in modo integrato con altri professionisti del territorio e dell’ospedale” nell’area Appennino Reggiano (Emilia Romagna).
Altri interventi si potrebbero citare leggendo le relazioni al CIPE 2018 e 2019 o consultando direttamente gli “accordi di programma” (sono 50 -su 71- quelli definiti, secondo gli ultimi aggiornamenti disponibili) pubblicati nel sito dedicato dell’Agenzia della coesione territoriale.
Complessivamente, secondo una proiezione dei dati CTAI del dicembre scorso, le risorse convogliate su progetti di medicina territoriale rappresentano circa il 10% del budget messo a disposizione dalla SNAI pari a circa 1,2 miliardi di euro.
A ben vedere sono proprio queste le direttive di intervento su cui si muove anche il Piano nazionale ripresa e resilienza (PNRR) consegnato alla Commissione nell’aprile scorso.
Nel Piano, secondo la struttura binaria riforme\investimenti, il tema di servizi sanitari territoriali è trattato nella missione 6 (salute) e, limitatamente alle aree interne, nella missione 5 (interventi speciali per la coesione territoriale). Rispetto alla missione 6, il riferimento è alla “componente 1” dedicata alle reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale. Innanzi tutto, la riforma che vi è collegata si propone di potenziare i “servizi di prossimità” e prevede la “definizione di standard strutturali, organizzativi e tecnologici omogenei per l’assistenza territoriale” (da definire con uno specifico decreto ministeriale entro il 2021). Vi è poi la previsione di un investimento pari a circa 2 miliardi di euro per la realizzazione, entro le metà del 2026, di 1.288 “Case della Comunità”, concepite come strutture “in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali” e, nelle quali sarà altresì istituito il punto unico di accesso (PUA) “per le valutazioni multidimensionali (servizi socio-sanitari) e i servizi (…) dedicati alla tutela della donna, del bambino e dei nuclei familiari secondo un approccio di medicina di genere”. L’investimento 2 della componente, per un valore di 4 miliardi di euro, è dedicato invece al rafforzamento dell’assistenza domiciliare e della telemedicina per fare della casa il primo luogo di cura. L’intervento mira ad aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, il 10% della popolazione di età superiore ai 65 anni, in linea con le migliori prassi europee. Per lo scopo si prevede di attivare 602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di “coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza-urgenza”. L’investimento 3, inoltre, con un costo pubblico complessivo di 1 miliardo di euro, prevede la realizzazione di 381 Ospedali di Comunità, ovvero “strutture sanitarie della rete territoriale a ricovero breve e destinata a pazienti che necessitino di interventi a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata”. Infine, nell’investimento 1 della missione 5 si prevede, con un costo pari a 830 milioni di euro, il potenziamento dei servizi e delle infrastrutture sociali di comunità nelle “aree interne” nonché il consolidamento delle farmacie rurali convenzionati dei centri con meno di 3.000 abitanti al fine di renderle “in grado di gestire servizi sanitari territoriali”. Per quest’ultimo investimento è previsto un co-finanziamento di privati pari a circa il 50% dell’intervento pubblico stanziato.
In conclusione, considerata la natura degli interventi osservati, si può ragionevolmente affermare che l’esperienza maturata dalla SNAI sia da considerare un’anticipazione delle iniziative poi adottate dal PNRR. Apprendere da quelle esperienze significa arricchire di sapéri istituzionali tecnici e amministrativi la complessa macchina attuativa del Piano, conoscenze che i territori hanno già acquisito per attuare quelle misure di potenziamento della medicina territoriale da tutti ritenute giustamente essenziali per ridare un futuro di benessere al nostro Paese.
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(Le opinioni dell’autore non impegnano l’amministrazione di appartenenza)
Credits: copertina tratta da foto di Tumisu da Pixabay
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