Storia e aree interne: ritrovare il passato per guardare al futuro
di Augusto Ciuffetti
Nel dibattito che in questi ultimi anni è cresciuto intorno al tema delle aree interne, in particolare di quelle montane dell’Italia centrale, l’analisi storica è quasi sempre relegata ad un ruolo subalterno. Nonostante in molti interventi si richiami la necessità di procedere, in via preliminare, con un’attenta ricostruzione storica di spazi e territori, in grado di cogliere dinamiche sociali ed economiche in una prospettiva di lungo periodo, essa viene poi superata e dimenticata nelle successive fasi delle progettazioni.
È quanto accaduto anche in riferimento alla dorsale appenninica tra Umbria, Marche e Lazio colpita dal terremoto del 2016-2017. In tutte le strategie e le ipotesi di lavoro messe a punto per rilanciare questi territori le dinamiche del presente sembrano schiacciare ed annullare del tutto ogni suggestione che possa provenire dal passato. Si tratta di un grave errore di prospettiva. Per secoli, infatti, gli Appennini hanno rappresentato uno spazio di fondamentale importanza e di assoluta centralità non solo per l’economia e la società, ma anche per la cultura stessa della penisola italiana. Nel basso medioevo, alcune tra le principali innovazioni delle tecniche produttive e tra le più raffinate elaborazioni culturali e religiose sono maturate in uno spazio circoscritto, compreso tra l’Appennino umbro-marchigiano e quello abruzzese e laziale. È proprio in tale ambito geografico che si è definita una civiltà appenninica dotata di caratteri del tutto originali.
Nel corso dell’età moderna, questa dorsale non si è mai configurata come un ostacolo, bensì come un’area continuamente percorsa da uomini, merci e animali, sia dal meridione verso il nord, sia in una dimensione trasversale tra i due versanti della catena montuosa che meriterebbe una maggiore attenzione. Nell’Appennino sono maturati nel lungo periodo comportamenti e modalità lavorative (capacità di svolgere mestieri diversi nelle prospettive della pluriattività e della protoindustria), attitudini ad una continua mobilità sinonimo di apertura e di crescita (transumanze e migrazioni stagionali di braccianti e artigiani) e modelli economici e sociali (centralità delle comunità di villaggio e gestione collettiva delle risorse, come pascoli e boschi, attraverso la pratica degli usi civici e dei beni comuni) assolutamente originali ed alternativi agli schemi predominanti. Sono questi i connotati di una società “tradizionale” che ha permesso all’Appennino dell’Italia centrale di resistere al declino economico e al ripiegamento demografico, sinonimo di spopolamento, almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando il “miracolo economico” ha cambiato la chiave interpretativa dello sviluppo italiano, trasformando in spazi arretrati, poveri e marginali dei territori che non lo sono mai stati, almeno fino a tempi recenti.
Non tener conto di tutto ciò, cioè dell’originalità e della peculiarità delle aree interne montane, nell’ambito di nuovi possibili sentieri di sviluppo, crescita e valorizzazione di queste ultime significa, come già sottolineato, commettere un grave errore di prospettiva. Alle aree interne degli Appennini non servono progetti pensati al loro esterno, costruiti con dei riferimenti economici e sociali che non appartengono alla loro storia, distanti da culture, usi e costumi locali, spesso calati dall’alto e in aperto conflitto. Non si può guardare agli Appennini da altri luoghi, senza tener conto di una storia militante ancora capace di indicare possibili percorsi per il futuro.
A cosa serve immaginare la ripresa dei villaggi appenninici come una sorta di valvola di sfogo ambientale per città sovraffollate e prossime al collasso? Ancora una volta è totalmente sbagliata la prospettiva. Prima di innescare processi di questo tipo, esterni ed estranei alle piccole comunità appenniniche, mettendole al servizio di spazi urbani più grandi, è opportuno individuare percorsi che possano rendere più saldi e forti i villaggi, in modo che essi si possano confrontare sullo stesso piano con altre realtà con caratteri maggiormente pervasivi.
Per fare in modo che si possa tessere un rapporto proficuo tra aree interne e modelli di sviluppo non più sostenibili sarebbe necessario cambiare totalmente il paradigma economico, ma ciò, malgrado le continue crisi di sistema, le emergenze sanitarie e le forti criticità ambientali, non sembra essere ancora all’ordine del giorno.
In uno scenario di questo tipo, dunque, ogni possibile percorso per l’Appennino non può che derivare dalla sua capacità di essere alternativo e diverso rispetto ai modelli dominanti. In altre parole, per il suo sviluppo, è indispensabile rifiutare tutti quei progetti omologanti che sono espressione diretta di questi ultimi.
È attingendo alla storia delle aree appenniniche (ovviamente declinata sulle esigenze attuali), e in particolare a quella visione comunitaria e collettiva dell’economia e della società, insieme alla loro capacità di accogliere piuttosto che respingere, che si possono individuare nuovi equilibri e nuove strade per il futuro.
L’Appennino può diventare una sorta di laboratorio dove le economie del passato si possano rinnovare lungo un inedito sentiero valido non solo per le aree interne, ma anche per il resto d’Italia.
In definitiva, è da questo totale ribaltamento di prospettiva che è necessario ripartire.