
Evitare la “deforestazione” di culture e lingue
I dialetti italiani come alberi e le loro radici contadine da preservare
Di Elia Gaudenzi
Leggendo molta della letteratura italiana di metà Novecento (si pensi a Mario Rigoni Stern, Italo Calvino, Andrea Zanzotto o Pasolini, per citarne alcuni) emerge con evidenza che uno dei punti di contatto più nevralgici delle poetiche è, senza ombra di dubbio, la scomparsa di un mondo, quello rurale di inizio Novecento, in cui i valori edenici e di armonia esistenti tra l’uomo e il suo territorio ancora sopravvivevano. Questi autori hanno attraversato sulle loro pelli quell’irreversibile cambiamento che, per portata e velocità (non a caso il ventesimo secolo è stato apostrofato come “secolo breve”), non ha rivali nell’intera histoire naturelle, divenuta ormai unità di misura obsoleta per un universo del tutto antropizzato.
È fondamentale, infatti, fissare nella mente che la globalizzazione avvenuta a partire dal secondo Novecento ha portato con sé, non solo l’irrefrenabile avanzata tecnologica e del calcestruzzo (lamentata tanto dagli autori per gli effetti sul paesaggio), ma, soprattutto, un’irreversibile diffusione di un’idea di “mondo” lontanissima da esso. L’ambiente in cui viviamo e pensiamo, quello in cui si sviluppano i termini delle nostre intuizioni, non ha nulla a che vedere con i ritmi e i principi naturali con cui le forme viventi hanno sempre fatto i conti: l’essere umano (occidentale), nel Novecento, ha terminato quel percorso iniziato nel XVIII secolo con la Rivoluzione industriale, diventando ingranaggio di un sistema produttivo atto a garantire una dignitosa (e insostenibile) sopravvivenza alla razza.
Evitiamo, tramite le parole di Timothy Morton, professore alla Rice University di Houston, qualsiasi fraintendimento di natura eco-anarchica riassumibile con un eroico ritorno alle origini:
A partire dal periodo Neolitico, la maggior parte delle cosiddette civiltà hanno adottato una qualche forma di razzismo che consentisse quello che oggi viene chiamato specismo, ossia il pregiudizio e la convinzione dell’esistenza di una netta linea divisoria tra umani e non umani. Questo è il motivo per cui una politica ecologica non ha niente a che fare con un “ritorno alla natura” (che a me suona come fascista) o una qualche forma di primitivismo, un regredire nel passato verso qualcosa di migliore, che chiaramente migliore non era, perché altrimenti non saremmo giunti al pasticcio in cui ci troviamo. (TIMOTHY MORTON, Cosa sosteniamo? Pensare la natura al tempo della catastrofe, Aboca edizioni, Sansepolcro, 2019, p. 15)
Quello a cui siamo approdati, insomma, è la percezione che la città e, più in generale la società, siano habitat veri e propri e non ambienti artificiali quali in realtà sono, tanto che non deve sorprendere la completa estraneità di molti bambini o adolescenti di nuova generazione (ma anche adulti) verso le più basilari pillole di scienze naturali. Tuttavia, ciò che ha caratterizzato maggiormente la seconda globalizzazione, ovvero quella che prese il via a partire dagli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, è stato il cambiamento rivoluzionario verificatosi nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
In principio furono la radio e la televisione ad iniziare l’infiltrazione entro le mura domestiche, raggiungendo anche quelle comunità rurali più isolate e distaccate, così da diventare il must have della classe media borghese, aspirazione sociale della famiglia italiana a partire dal famoso “periodo del benessere” degli anni Sessanta (e fino almeno ai successivi due decenni). L’impennata più radicale per le ICT (Information and Communications Technology) venne a registrarsi però intorno agli anni Novanta, quando l’universo internet e la telefonia mobile spianarono la strada alla digitalizzazione del mondo che noi oggi tutti ben conosciamo e viviamo quotidianamente. Tutte queste enormi innovazioni portarono gradualmente ad un’impensabile rivoluzione nel trasferimento delle idee e delle informazioni, attraverso le quali si è sviluppato il sistema del consenso di massa, volto a neutralizzare le soggettività a favore di un’opinione pubblica universalmente condivisa. La questione ambientale non si è chiaramente sottratta a questo meccanismo.
Guattari ha ragione a prendersela con il riduzionismo ambientalista. Non vedere che l’inquinamento è una categoria della modernità, non vedere che tra polluzione delle idee, eccesso di informazione e polluzione dei mari non c’è differenza, ma una relazione stretta, significa accettare di giocare con le regole imposte dalle grandi centrali dei media. Credere che la televisione e ciò che l’ha seguita, l’internet tradito dai social, ad esempio, non sia il modello e la causa della passività in una società di massa, presumere di essere fuori dal suo gioco solo perché si è alfieri della bontà della natura, ha significato sostenere una linea di artificializzazione del discorso naturale. La «waltdisneyzzazione» e la «pieroangelizzazione» della natura, la natura come entertaining intelligente sono servite a conservare di più la natura o a conservare di più i media? Siamo davvero convinti che i social educhino, inducano a comportamenti diversi, creino una coscienza? Anche se ci si crede, è possibile farlo così ciecamente? O non sorge il dubbio che immettere contenuti buoni in un trasformatore e riduttore di tale potenza significa soltanto neutralizzarli? (FRANCO LA CECLA, Le tre ecologie più una: la pornoecologia in FÉLIX GUATTARI; FRANCO LA CECLA, Le tre ecologie, Edizioni Sonda, Milano, 2019, p. 76.)
L’appiattimento intellettuale che ne è conseguito ha dunque modificato profondamente i riferimenti culturali a cui l’uomo contemporaneo rivolge lo sguardo, approdando in tal modo ad una omologazione di massa intuitivamente accostabile ad un pericoloso deterrente contro l’ecologia sia in senso lato, sia specificamente sociale. L’etica dei luoghi va necessariamente affiancata ad un’etica sociale che si può tradurre come volontà di salvaguardia delle particolarità regionali, appartenenti in tutto e per tutto ad un heritage umano sempre più sulla via del tramonto.
È in questo contesto che si va a collocare l’orizzonte dialettale italiano (orizzonte messo al bando già durante il Ventennio con il suo caratteristico italiano di stile pomposo ed eroico diffuso dall’EIAR), vero e proprio crogiuolo di biodiversità che può essere efficacemente paragonato ad un bosco: se infatti pensiamo ai dialetti italiani come alberi, va da sé pensare le loro radici plurisecolari come il collante necessario affinché il terreno (identitario) rimanga stabile.
Quello a cui stiamo assistendo è però una violenta deforestazione che ha portato alla scomparsa di culture e lingue, universi di secolare memoria spazzati via nel giro di poco più di due generazioni a fronte, nuovamente, dell’uniformizzazione imposta dall’adozione di una lingua nazionale impossibilitata a svilupparsi in parallelo. Questo è stato il destino dei dialetti italiani e delle loro radici contadine.
L’estinzione delle lingue, allora, non è da considerarsi di minor impatto rispetto alla scomparsa di una specie animale o vegetale e, alla stregua di queste, sono da considerarsi bisognose di tutela e protezione. Quello che si lascia, perdendo una lingua, non è solamente il suo corredo grammaticale, lessicale e sintattico ma sono interi concetti esprimibili e comprensibili solamente in uno specifico idioma. Non è abbastanza perché la perdita si possa definire catastrofica? Tuttavia sono questi i dettami di una società tecnocratica che non ha retto sul piano morale lo sviluppo raggiunto sul piano scientifico, e in cui gli strumenti tecnologici non sono integrati alla cultura ma puntano a diventare essi stessi cultura. È possibile che, in questa prospettiva, secoli e secoli di pensiero umano vengano rasi al suolo da una serie infinita di algoritmi senza alcun rimpianto? Senza alcuna conseguenza? È davvero sostenibile una società robotizzata o sarebbe meglio imparare a far dialogare questi due aspetti della modernità, umano e robotico?
credits foto copertina di Hans Braxmeier da Pixabay
