Le tre grandi questioni irrisolte sul futuro del lavoro
di Flavio Natale su Futuranetwork (15 dicembre 2020)
La rivoluzione robotica sta plasmando il concetto stesso di produzione, lavoro, consumo. Gli effetti registrati vanno oltre la perdita dell’impiego, ma riguardano i ritmi con cui gestiremo le nostre vite e il ruolo futuro che assumeremo in qualità di esseri umani.
“Non è più questione di come noi pensiamo alla tecnica, dato che la tecnica pensa sempre di più a se stessa”
Questa breve citazione proviene da Collasso, una raccolta di saggi di Nick Land, filosofo inglese contemporaneo, recentemente pubblicata dalla Luiss University Press. Land è uno degli esponenti di spicco dell’accelerazionismo, una delle più discusse filosofie contemporanee, secondo cui il superamento del capitalismo si potrebbe ottenere non attenuando ma accelerando le sue forze disgreganti, caotiche, entropiche. Il fine sarebbe quello di favorire un futuro dove, in breve, a essere protagonista sarebbe non l’uomo ma il robot.
Tralasciando i dibattiti che questo approccio al capitalismo potrebbe far nascere (discussi anche in seno alla stessa corrente, e che hanno generato numerose scuole di pensiero differenti) l’accelerazionismo ha introdotto un significativo strumento interpretativo per decrittare il mondo che abitiamo. Parlare di robotica (e conseguente perdita del lavoro umano) non implica soltanto comprendere quanto o in che modo lavoreremo nel futuro, ma quale ruolo avremo nello stesso futuro che si andrà a creare, e soprattutto quanto l’uomo sarà necessario alle attività generate prima dal proprio intelletto e poi dalle intelligenze artificiali. Il lavoro, deumanizzato, diventerebbe in questo senso un interessante banco di prova. L’essere umano, da homo laborans, potrebbe accedere a un’altra funzione della sua storia evolutiva. Ma quale?
Chi perde il lavoro
“L’intelligenza artificiale sta cambiando rapidamente il mondo che abbiamo davanti” si legge in un articolo pubblicato su Futurism, che ha analizzato i settori che in questi anni verranno trasformati dall’automazione dei processi produttivi. “Ciò potrebbe significare che alcune mansioni diventeranno completamente automatizzate, facendo in modo che molti esseri umani si ritrovino senza impiego”. Di questo genere di attività ce ne sono molteplici, ma alcune stanno subendo mutamenti così significativi che, nel breve-medio periodo, potrebbero considerarsi più attività robotiche che umane.
Uno di questi settori è quello del servizio clienti. In questo campo si stanno specializzando aziende come DigitalGenius, piattaforma che si occupa di promuovere l’automatizzazione delle chat dei servizi clienti nelle aziende di ogni angolo del globo. Le macchine, tramite l’apprendimento automatico e l’elaborazione del linguaggio naturale, sarebbero in grado di produrre chatbot amichevoli e reazioni incredibilmente simili a quelle umane. “I trasporti sono un altro settore maturo per l’automazione” si legge nell’articolo. I conducenti delle consegne, nonché quelli impiegati nei trasporti a lungo raggio e in quelli pubblici, potrebbero infatti essere rimpiazzati dalla rivoluzione delle macchine a guida autonoma.
Anche il settore della logistica è un luogo fertile per la rivoluzione robotica. Amazon ha ad esempio promesso che potrebbe “automatizzare tutti i magazzini nel giro di dieci anni”: i problemi logistici, come la gestione dinamica dei sistemi direzionali per migliorare le velocità di consegna e l’allocazione efficiente dello spazio nei container e nei camion, sono infatti mansioni ideali per sistemi che utilizzino applicazioni di Intelligenza artificiale.
Ma anche i professionisti sanitari e legali potrebbero essere influenzati da queste rivoluzioni. Ross, ad esempio, è il primo avvocato prodotto da Ibm che si basa esclusivamente su un’intelligenza artificiale; questo prototipo fa parte della tecnologia Watson, elaborata dall’azienda informatica statunitense per creare robot capaci di assistere i clienti nei negozi. “Ross aiuta a scegliere le soluzioni legali più rilevanti e le presenta in un linguaggio naturale” si legge sul Washington Post. “Fornisce inoltre monitoraggio in tempo reale riguardo a nuove prospettive che potrebbero potenzialmente influire sullo svolgimento del caso giudiziario”. Nel settore sanitario, invece, le Intelligenze artificiali potrebbero individuare database di cartelle cliniche e sequenze genomiche, velocizzando le diagnosi dei pazienti, così come somministrare le cure di base ai pazienti. Sedasys, ad esempio, è un macchinario creato dall’azienda Johnson and Johnson (e approvato dalla Food and drug administration) per fornire l’erogazione automatica dell’anestesia. Questo sistema, ça va sans dire, permetterebbe a un singolo medico di supervisionare contemporaneamente più macchine, con un significativo risparmio dei costi.
“Nuove forze stanno trasformando il mondo dell’occupazione” hanno affermato a questo proposito Stefan Löfven e Matamela Cyril Ramaphosa, i due presidenti della Commissione globale sul futuro del lavoro, promossa dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), che ha prodotto il rapporto “Work for a brighter future”. La Commissione di esperti, a cui ha partecipato anche Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS, ha sottolineato che “queste transizioni richiedono un’azione decisa e compatta, per sfruttarne le opportunità e migliorare la qualità della vita, colmare il divario di genere e ridurre la disuguaglianza sociale”. I progressi tecnologici, infatti, potrebbero creare posti di lavoro come ridurli, risolvere questioni di genere come amplificarle.
Uno studio pubblicato dal World Economic Forum (condotto prima della pandemia) ha ad esempio rilevato che le donne sono destinate a essere colpite più duramente da questi mutamenti rispetto agli uomini. “Negli Stati Uniti, 1,4 milioni di posti di lavoro saranno, entro il 2026, vulnerabili a causa della tecnologia e di altri fattori. Il 57% di coloro il cui lavoro è a rischio sono donne”. Lo studio fa infatti notare come spesso, pensando alla rivoluzione dell’automazione, l’attenzione cada con troppa frequenza sulle industrie che si basano sul sistema di linee di assemblaggio per il loro funzionamento, tralasciando ogni altro ambito lavorativo. “È stato stimato che sulla scia dell’automazione saranno a rischio i posti di lavoro di circa 90mila lavoratori uomini in linea di assemblaggio, rispetto alle 164mila donne che sono impiegate come segretarie e assistenti amministrative”.
Per questo il Rapporto Ilo ha identificato alcune raccomandazioni per guidare il processo di evoluzione del lavoro:
- Aumentare gli investimenti nelle capacità delle persone, sorpassando il concetto di “capitale umano” per arrivare a dimensioni più ampie dello sviluppo e del progresso degli standard di vita;
- Incrementare gli investimenti nelle istituzioni per i lavoratori, organismi fondamentali della nostra società, stabilendo ad esempio una Carta Universale del Lavoro, garantendo il rispetto dei diritti fondamentali (come quello al lavoro stesso), un adeguato salario di sussistenza, limiti massimi di orario, salute e sicurezza;
- Aumentare gli investimenti per un lavoro dignitoso e sostenibile, in linea con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Come cambia la vita dei lavoratori
Una volta appurato che il mondo del lavoro muterà, la domanda sorge quasi spontanea: come muteremo noi rispetto al lavoro?
L’anno scorso, Microsoft Japan ha fatto un esperimento: calcolando che la maggior parte delle funzioni lavorative si sarebbero potute sbrigare, dati i profondi mutamenti tecnologici, in quattro giorni invece di cinque, ha provato a chiudere gli uffici il venerdì, offrendo a 2.300 dipendenti un fine settimana di tre giorni per un mese, e monitorandone il rendimento. “Con i lavoratori alla scrivania quattro giorni invece di cinque, la produttività, invece di diminuire, è aumentata di quasi il 40%” ha dichiarato l’azienda. Microsoft Japan ha inoltre incoraggiato un limite di 30 minuti per le riunioni, esortando i dipendenti a comunicare online piuttosto che faccia a faccia (opzione che ora, per noi, è diventata abitudine).
Ma il futuro del lavoro umano non andrà soltanto verso una riduzione del tempo, ma anche nella direzione di uno sfibramento del legame tra luogo lavorativo e abitativo.
“Che si viva nello stesso luogo in cui si lavora è un’ovvietà antica quanto la coltivazione del grano; il che significa che è antica quanto la città stessa” si legge su un recente articolo pubblicato su Atlantic. “Internet è specializzato nello sciogliere i legami creati nei secoli scorsi, che si tratti della televisione, dei quotidiani locali o dei negozi di quartiere”. Il fenomeno italiano del south working è proprio un effetto di questa modalità: molti lavoratori, soprattutto giovani professionisti del settore terziario, hanno abbandonato le città del nord per tornare al sud, con costi di vita più modici e legami familiari preesistenti.
La domanda è: queste trasformazioni resisteranno al dopo Covid-19? Stando a un sondaggio Cisco, il 46% dei lavoratori statunitensi prevede di fare smart working almeno per una settimana al mese anche quando la pandemia sarà conclusa; mentre in Italia uno studio di Aidp (Associazione italiana direttori del personale) afferma che il 68% delle aziende prolungherà le attività di smart working anche nella fase post pandemica.
Lo stesso Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia alla Sapienza di Roma, ha recentemente pubblicato un saggio sul tema: Smart working, la rivoluzione del lavoro intelligente (Marsilio editore) e ne ha parlato anche in una intervista su Futuranetwork. “Oggi il sistema è centrato sulla realizzazione di beni immateriali, cioè di informazioni, servizi, simboli, valori ed estetica. […] Su cento lavoratori, 70 sono impiegati, manager, dirigenti o professionisti, cioè persone che non manipolano materie prime, cioè atomi, ma informazioni, cioè bit. Se è difficile immaginare di spostare un altoforno a casa dell’operaio, non si capisce perché non si possono portare i bit a casa delle persone piuttosto che spostarle fisicamente sui posti di lavoro”.
Poi, alla domanda su quali saranno le evoluzioni future di questa transizione, De Masi risponde che: “I nostri nonni vivevano per lavorare, noi lavoreremo quel tanto che ci basterà per vivere […] Tra dieci anni avremo ancora meno lavoro, quindi il nodo non sarà il tempo a questo dedicato ma il tempo libero”. Il lavoro, sottolinea De Masi, “lo faranno in gran parte le macchine, a noi resteranno le mansioni creative per cui o ci saranno molti disoccupati o si lavorerà meno”.
Come guadagna chi perde il lavoro
Quindi la terza e ultima questione: questa riduzione del lavoro potrebbe implicare guadagni minori per molti individui. Come potranno sopravvivere?
Una risposta potrebbe risiedere nel reddito di base universale (Ubi), pubblicizzato come soluzione per ridurre le opportunità di lavoro degli esseri umani. Opzione ancora in fase di sviluppo, questa possibilità viene richiamata da ambiti economici differenti, e comincia ad assumere una certa importanza. L’Ubi consentirebbe infatti alle persone di ricevere un reddito fisso indipendentemente dalle circostanze, quali occupazione e stato sociale, oltre ad aiutare gli individui a far fronte alla profonda rivoluzione sociale che sarà l’automazione.
Intervenendo a una tavola rotonda al Sesto meeting di Lindau sulle scienze economiche, Sir Chris Pissarides, vincitore del Nobel per l’economia nel 2010, ha affermato che “Il reddito di base universale è un modo semplice per provvedere ai bisogni fondamentali della vita; si potrebbero forse fornire servizi sociali come sanità e istruzione attraverso il mercato”. In questo modo, “piuttosto che fornire alle persone servizi statali, puoi fidarti che le persone decidano da sole come spendere i propri soldi”.
“Non dovremmo cercare di affrontare la disuguaglianza fermando questi processi globali, perché questi hanno la capacità di portare più prosperità nel mondo”, ha aggiunto il Premio Nobel. “Se non ci sono abbastanza lavori da fare per tutti, possiamo prenderci più tempo libero. Stiamo invecchiando, quindi possiamo stare tranquilli che le macchine faranno più del lavoro che gli esseri umani attualmente fanno”.
Elon Musk, altro sostenitore del reddito universale di base, è di avviso simile, e aggiunge a questi ragionamenti le possibili ripercussioni psico-sociali che l’automazione potrebbe comportare: “Se non ci sarà più bisogno del nostro lavoro, quale sarà il nostro significato?”
Bill Gates, di risposta, ventila la possibilità di introdurre una tassa sui robot, in modo da rallentare l’espansione dell’automazione e finanziare i settori in cui l’empatia umana è una dote indispensabile o, in alternativa, fornire corsi di aggiornamento per i lavoratori che hanno perso il loro impiego, e riadattandoli ad altre attività.
La questione, dunque, è particolarmente complessa, e una risposta al momento non esiste. Ma un’evoluzione si può intravedere, anche alla lontana. Fuor di ogni sterile moralismo, se l’essere umano può essere sostituito nel proprio lavoro ma non può perdere la propria capacità d’acquisto (garantita da un reddito universale) vuol dire che il nostro ruolo sulla Terra si sta modificando più di quanto pensiamo, e noi potremmo passare, come sta già accadendo, da essere sempre meno homo laborans e sempre più homo consumens. Le congetture, da questo punto in poi, sono potenzialmente infinite.